“Per sua stessa natura la giovinezza è stata da sempre incaricata di rappresentare il futuro: la perenne caratterizzazione mediatica dell’adolescente come genio o mostro continua a veicolare le speranze e le paure degli adulti su quanto accadrà in futuro. Ignorare chi spicca come precursore a favore di chi resta fedele allo status quo significa rifiutare l’impegno preso con il futuro, se non addirittura equivocare la natura stessa della giovinezza. Io vado fiero del mio romanticismo in materia, quanto meno perché spero in un mondo migliore.
Jon Savage – L’invenzione dei giovani“Chi vi credete che noi siam, per i capelli che portiam / Noi siamo delle lucciole che stanno nelle tenebre”
Franco Battiato – Up Patriot To Arms
Tokyo, Anno Domini 2021. Sono passati più di trent’anni dalla fine della terza guerra mondiale. La città sembra essersi ormai ripresa dalla distruzione: grattacieli, autostrade e neon danno l’idea di una città di nuovo prospera. Ma il cratere atomico nel bel mezzo del villaggio olimpico fa sorgere il sospetto che ci sia una ferita ancora aperta, nel cuore della città e nel cuore dei cittadini.
Col cessare delle bombe non si è fermata la violenza, e nemmeno è cessata la guerra: ha solo cambiato faccia.
Non è più guerra mondiale adesso, è guerra civile: scontri di piazza, attentati dinamitardi, spari sui manifestanti. La generazione figlia dell’atomica non trova stabilità e prospettive per il futuro, e le moltitudini reclamano a gran voce il diritto alla speranza e all’immaginazione, solo per abbattersi contro un muro di gas lacrimogeni, proiettili e manganelli.
Stretti nei budelli attorcigliati ai palazzi, sembrano quasi torme di formiche impazzite, vittime di un gioco atroce orchestrato da bambini ingenuamente sadici. Ma non una voce, un rumore, un suono riesce a penetrare i muri di vetro per arrivare nelle stanze dei bottoni, alle orecchie di quei potenti che, stretti attorno a un tavolo, decidono delle sorti del paese, interessati unicamente a mantenere ben saldo nelle loro mani ogni privilegio.
Ed eccoli lá: tutti riuniti attorno al calderone, a spartirsi le carni della nazione, gettando giù dalle mura delle torri solo frattaglie e interiora ai questuanti, in una rappresentazione decisamente medievale. Politici sordi e chiusi nei palazzi, giovani e lavoratori abbandonati all’insicurezza, un futuro quantomai fumoso e incerto: pare di essere spettatori di una fedele raffigurazione delle metropoli moderne, e invece altro non è che l’incipit di Akira, anime partorito dalla mente visionaria di Katsuhiro Otomo.
Otomo vuole raccontare le ansie di una generazione nata sotto l’incubo dell’atomica, che nel paese del sol levante è non solo un fantasma del passato, ma anche una minaccia che incombe sul futuro. Nell’anime, il cratere di New Tokyo, a distanza di diversi anni dalla fine del conflitto mondiale, è una ferita ancora aperta nell’anima del paese, ma rapprenta anche il j’accuse che l’autore muove a politici e militari, ritratti in maniera impietosa come arraffoni e dispotici, colpevoli di aver trascinato la nazione nel baratro del secondo conflitto mondiale, da cui il Giappone ne esce ferito, sconfitto, ma soprattutto dominato: la presenza americana nel paese, infatti, altro non è che una vera e propria occupazione militare.
Ed è proprio grazie all’utilizzo dei motivi stilistici tipici del cinema statunitense che l’autore riesce a rendere evidente questa influenza strisciante nella società nipponica: così le moto di “Easy Rider” e l’amore tra i lacrimogeni di “Fragole e sangue” si fanno spazio tra temi tipici del cinema giapponese, come la commistione uomo-macchina tanto cara ai vari “Goldrake” e “Jeeg Robot”, o le mutazioni radioattive alla “Godzilla”.
Oltre al cinema made in Usa post-68, Akira deve molto anche alla scena cyberpunk, dalla quale eredita le ambientazioni claustrofobiche, le atmosfere fumose ma, soprattutto, un fascino dickiano decisamente profetico.
Questo è il vero talento di Otomo: cogliere il futuro nel presente. Descrivere il contemporaneo, ma con un occhio ben fisso all’orizzonte.
Perchè, a distanza di anni e generazioni, ci si riunisce ancora in piazza per chiedere un futuro, con l’angoscia di non avere più il tempo per sognare e di doversi accontentare di una ben misera minestra scaldata.
Le manifestazioni, i cortei e le proteste alle volte alimentano quello stesso clima di insicurezza che si vorrebbe combattere, e finiscono per spingere i più a cercare maggior sicurezza, affidandosi alle mani di quegli agenti del cambiamento che li stanno depauperando di prospettive e possibilità.
È una specie di triangolo di Karpman a livello sociale: dove il salvatore è in realtà il carnefice, come il signor Nezu che, da finanziatore della rivolta capeggiata da Ryu, si rivela poi essere solo un doppiogiochista attento ai propri interessi, e la vittima è carnefice indiretta di sè stessa e di ciò che ha intorno. È tutto un puzzle ben congegnato: ogni pezzo ha il suo incastro, e serve a tenere gli altri pezzi bloccati, in un amalgama unico, piatto e costante.
Ma, in questa storia, c’è una variabile che nessuno ha tenuto in considerazione: un gruppo di ragazzini in sella a motociclette troppo grandi per la loro età.
Uno stormo di calabroni degli alveari di cemento della periferia di Tokyo, che non sanno di non poter volare, non sanno di non poter ribaltare il tavolo per avere un mondo diverso, dove sentirsi a casa. Militari, insegnanti, politici: tutti vorrebbero metterli in riga con le buone, ma soprattutto con le cattive; tutti vorrebbero farli entrare nel puzzle, senza capire che in realtà per loro non c’è un posto adatto.
Come per i Teddy boys londinesi, come per gli accattoni borgatari, queste generazioni di “folks devil”, figli dell’alienazione delle periferie, non sgomitano per trovarsi un posto nel puzzle, perché loro non vogliono un posto, non gli basta solo un pezzo: vogliono tutto il giocattolo. Come Lumpen d’oltreoceano si rifiutano di calcare un sentiero tracciato da genitori, nonni, e altri prima di loro: vogliono battere nuovi sentieri su rotte inesplorate, vogliono un altro mondo possibile. Nella loro svogliatezza, irriverenza, aggressività ricordano molto Andy Capp, il personaggio dei fumetti creato da Reg Smythe, con cui condividono anche il rifiuto netto di innumerevoli convenzioni sociali: come l’idea del pater familias, del lavoro nobilitante, della vita equilibrata. Si potrebbero quasi definire come degli Andy Capp dagli occhi a mandorla oppure, utilizzando un facile gioco di parole, potremmo chiamarli degli Akira Capp.
E come una moltitudine con le maglie a righe si è presentata sulle barricate circa vent’anni prima di loro, per fare a pugni contro militari armati fino ai denti senza il timore di rischiare la pelle, pur di riprendersi uno spicchio di futuro contro chi giocava a scacchi con le loro vite, così Kaneda e i ragazzi della Capsule si presentano alle porte del laboratorio dove tengono rinchiuso Tetsuo, dove si crea un destino in vitro, per dire “basta“ e rompere quel monopolio di immaginario e immaginazione rinchiuso tra guardie e cancelli.
Perchè che indossino maglie a righe o giubbotti di pelle colorati, per quanto violenti o disadattati possano apparire, queste lucciole di periferia portano dentro di sè il seme della rottura e del rinnovamento: personale per Kaneda, sociale per Kay, esistenziale per Tetsuo.
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