The Wire – La Serie Tv che mi ha cambiato

Gabriele Fornacetti

Luglio 3, 2018

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Quando ho iniziato The Wire era uno di quei giorni post-Pasqua e mi sentivo distrutto dalle imprese culinarie dei giorni precedenti. Si sa, fra Pasqua, Pasquetta e feste varie, la pancia non rimane mai vuota ed io ero così sazio che non vedevo l’ora che arrivasse sera per poltrire sul divano ed iniziare una nuova serie. Era ormai molto che non ne vedevo una. Qualche mese prima avevo visto I Soprano ed era stata un’esperienza così indimenticabile di aver deciso di aspettare un po’ prima di incominciarne una nuova. Ma quel giorno, dopo tanto tempo, mi sentivo finalmente pronto a voltare pagina.

E così apro Sky Box Sets, sfogliando un po’ il catalogo. C’è Lost, ma decido che è meglio vederla d’estate. C’è True Detective, ma l’ho già vista. C’è The Wire. Tutti ne parlano un gran bene ma in Italia la conoscono in pochi. Allora spulcio qualche notizia sui vari blog su internet, vedo qualche parere degli utenti. Ne sono entusiasti. Vabbè, le do una possibilità. Inizio il primo episodio.

the wire

D’improvviso appaiono due uomini, uno bianco e uno nero. Sono seduti su un marciapiede e osservano il cadavere di un giovane afroamericano crivellato di colpi. Il bianco è un poliziotto, un detective della Squadra Omicidi di Baltimora, Jimmy McNulty. Il nero è un amico della vittima, probabilmente anche lui invischiato nel traffico di droga che imperversa in ogni angolo della città. Parlano del soprannome del cadavere, “Moccio“, un ragazzo che ogni sera tentava di rubare il piattino di soldi di alcuni giocatori di dadi. Finiva puntualmente con qualcuno che lo pestava; ma stavolta no. Quella sera quel qualcuno aveva deciso che le botte non bastavano. McNulty allora chiede all’amico il perché continuassero a farlo giocare, consapevoli di ciò che sarebbe successo ogni fine sera. La risposta concentra tutto ciò che è The Wire:

Got to. This is America, man.

Immediatamente capii ciò che The Wire avrebbe significato per me: la più grande riflessione sulla democrazia che film o libro possa avermi mai stimolato.

Considerata da molti la più grande serie televisiva della storia, The Wire nasce dalla penna di David Simon, per anni giornalista di cronaca nera per il The Baltimore Sun, e dalle storie di Ed Burns, prima detective della Squadra Omicidi di Baltimora e dopo insegnante nelle scuole pubbliche della città. La frustrazione data dei rispettivi lavori porterà i due a raccontare la realtà di Baltimora per quello che è, la seconda città d’America per numero di omicidi l’anno.

Ma nel complesso The Wire non è soltanto Baltimora, anzi. E’ sopratutto l’analisi del fallimento, in qualunque settore, dell’amministrazione statale americana, resa evidente dalle numerose storie che, episodio dopo episodio, si susseguiranno nel corso della serie.

Già la prima scena, il primo dialogo, la metafora sul gioco e sul giocatore, mette gli spettatori dinanzi il filo conduttore di tutte le stagioni: la democrazia è un gioco che contrappone buoni e cattivi, ognuno legittimato dalla presenza dell’altro, ma chi stabilisce questi ruoli? E se per un attimo smettessimo ipoteticamente di giocare, quali sarebbero i vantaggi? Questa guerra, questa battaglia che lascia per terra ogni anno centinaia di cadaveri, ha un senso? Oppure giochiamo, consapevoli che nessuno vincerà mai, perché siamo socialmente obbligati a farlo?

the wire

In qualsiasi tempo, in qualsiasi società, siamo sempre stati abituati a scindere tra chi sbaglia e chi no in modo assolutamente semplicistico, senza mai indagare sulle innumerevoli cause che si celano dietro un semplice gesto. In questo modo abbiamo irriso gli altri, li abbiamo umiliati, abbiamo goduto nel vedergli inflitte punizioni esemplari. Perché così appagavamo la nostra fame di vendetta, di giustizia, di una morale che risiede nell’assoluta certezza di affermare sempre il bene, mai preoccupandoci se ciò sia vero o meno. Un ragionamento ipocrita che The Wire  rigetta, smascherando come molte volte chi appare in un modo è in realtà l’opposto.

Per questo in The Wire ogni azione è motivata da una ragione che, giusta o sbagliata che sia, definisce colui che la compie. I personaggi, in questo senso, sono perciò vittime e carnefici delle proprie scelte. Costretti in un limbo in cui giusto e sbagliato si mescolano.

Prendiamo Jimmy McNulty. McNulty ama il suo lavoro. Lo ama perché gli dà la possibilità di cambiare, in modo egoisticamente autonomo, quel sistema che ogni giorno fallisce dinanzi i suoi occhi. Difatti la Polizia non esercita mai la sua funzione, non arresta mai chi realmente è ai vertici della piramide criminale. E’ dedita esclusivamente ad assecondare i potenti di turno, truccando statistiche o gonfiando il numero degli arresti, pur di conservare quel po’ di potere ai vertici che per legge gli spetta. Così McNulty prova, lecitamente o meno, a cambiare le cose, ma tentando non ottiene che la sua autodistruzione. E alla fine né cambia nulla, né vince mai. In compenso però si mostra per quello che è, un uomo disposto a tutto pur di vedere assetata la sua sete di giustizia.

Lo stesso può dirsi per tutti coloro che, come lui, tentano di stravolgere l’ordine che la burocrazia impone. Lester, Daniels, Greggs, Bunk lavorano, studiano, interrogano ma alla fine vengono fermati da ciò che loro stesso rappresentano, lo Stato. Uno Stato che fa affari con il crimine, con il narcotraffico, con la droga che apparentemente sembra combattere ma che in realtà cela parte del lato oscuro di quel mondo ai vertici ai più sconosciuto. E così non cambia mai nulla, anche se in apparenza i protagonisti si alternano promettendo di essere i prossimi fautori del cambiamento.

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La parabola di Tommy Carcetti è forse la più esplicativa di questo enorme eterno ritorno che attanaglia Baltimora. Tommy è un consigliere comunale poco incline ai metodi utilizzati dal sindaco Royce. Quest’ultimo è infatti dedito esclusivamente ai propri interessi, nonché agli interessi dei suoi fedelissimi, uno dei quali è il corrotto commissario di Polizia Barrell.

In questo contesto ciò che più preme Carcetti è l’assicurare più giustizia in una città così dannatamente spietata come Baltimora. Così decide di candidarsi alla carica di sindaco, promettendo che con lui le cose cambieranno drasticamente. Ma una volta vinte le elezioni, la sua premura sarà esclusivamente quella di accumulare statistiche da utilizzare nella corsa a governatore. Ancora una volta non è cambiato niente.

Nel corso delle stagioni, però, qualcuno cambia. E non è un caso che quel qualcuno sia un ultimo della società, un tossicodipendente nero la cui vita per molti  non vale nemmeno il tempo di una telefonata (vedete la serie e capirete). Bubbes è la speranza. Una speranza rimasta troppe volte tale ma che alla fine, con la volontà e il sacrificio, è diventata una realtà a cui nessuno aveva creduto. In primis noi, delusi dai suoi fallimenti iniziali. In primis la sua famiglia, quell’angolo di felicità che ha sempre desiderato. In primis Baltimora, la città più cinica d’America.

E così anche Michael, Herc, Prez, proprio come noi, muteranno puntata dopo puntata, giungendo alla proprio meta soltanto alla fine di questo lungo viaggio.

The Wire mi ha insegnato tanto e alla fine di questo articolo sento di avere ancora troppo da raccontare. Per questo ho una certezza: scriverò ancora di The Wire (Omar Little grida vendetta!).

Perché questa non è una semplice serie, è la speranza che, prima o poi, qualcosa davvero cambi.

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