Locke è un film atipico. Il cinema possiede una varietà pressoché infinita di forme espressive, la maggior parte delle quali si fonda sulla presenza di diversi ambienti in cui numerosi personaggi interagiscono. L’intreccio nasce grazie a questi fattori.
Locke sovverte i cardini artistici perché prevede la presenza di un solo personaggio al volante di un’auto, interpretato da Tom Hardy in tempo reale, mentre gli altri membri del cast sono coinvolti solo grazie allo strumento sonoro.
Il film di Steven Knight del 2013 è un thriller psicologico di breve durata fondato su un viaggio personale compiuto dal protagonista, sia fisico che esistenziale. Nel momento in cui la narrazione entra nel vivo, la sensazione è quella di essere perennemente sul sedile del passeggero, a condividere col protagonista i suoi fardelli mentre si avvicina alla destinazione.
Ciò che questi elementi trasmettono allo spettatore è una pesante, inevitabile sensazione di ansiosa claustrofobia, amplificata sia dal set ristretto che dalla naturale immedesimazione empatica con Ivan Locke. Qual è il nucleo di questa claustrofobia?
Lontano dalla famiglia: perché il viaggio?
Seguendo le fasi iniziali della storia, notiamo che il motivo del viaggio non è chiaro. Possiamo solo limitarci ad assistere mentre comunica alla famiglia che non tornerà a casa per cena e al datore di lavoro che il mattino seguente non sarà presente in cantiere.
Il pilota è un uomo molto razionale e controllato, capace di svolgere i suoi ruoli con un forte senso di responsabilità. Mentre guida la sua espressione lascia trasparire sia tristezza sia determinazione a riportare la sua vita sulla giusta strada.
I due figli lo intimano di tornare per vedere la partita insieme, i suoi colleghi gli ricordano l’importante operazione edile del giorno seguente; nessun messaggio è forte al punto tale da scalfire la sua volontà, fondata su un’intima decisione presa molto tempo prima.
Lentamente arriva a confidarsi con la moglie Katrina e le confessa un tradimento avvenuto sette mesi prima in seguito ad un lavoro. Bethan, l’altra donna, sta per partorire un bambino e Locke ha scelto che la cosa più giusta da fare sia andare in ospedale e riconoscerlo.
La sua non è una scelta definitiva, infatti tra le lacrime della moglie e lo sconcerto dei figli ripete più volte che intende tornare dalla famiglia e riportare le cose alla normalità; la ragione che lo spinge verso Londra durante il film è suo padre, che anni prima lo aveva abbandonato: tra una telefonata e l’altra, Ivan parla con suo padre immaginario seduto sul sedile posteriore, riversandogli addosso tutto il rancore e l’inadeguatezza causata dalla sua mancanza di responsabilità.
Il protagonista intende distinguersi, intende prendere una decisione giusta e responsabile nei confronti di un bambino altrimenti orfano di padre. Spera che una notte di amore adultero sia una delusione infima rispetto al forte legame familiare che lo unisce ai suoi cari.
Programmare il lavoro: una scelta drastica
Ivan Locke, oltre ad essere molto dedito alla famiglia, è un responsabile capocantiere in grado di gestire le più difficili operazioni edili, che coinvolgono noiose procedure burocratiche e particolari manovre fisiche.
Il bambino frutto del suo “errore” nasce in corrispondenza di un’importante lavoro da svolgere nel corso del mattino, riguardante un grattacielo finanziato da diversi investitori.
È per questo motivo che egli ha programmato sin dalla sera precedente ogni momento del lavoro, cercando di minimizzare ogni margine d’errore. Dai blocchi stradali agli strumenti coinvolti nel processo, fino ad arrivare al personale impegnato. Ma l’umano, si sa, è fallibile e quando Ivan scopre di avere con sé il file contenente tutte queste informazioni, è ormai già in viaggio.
Locke affida dunque al collega Donal tutte le sue speranze, alternando precise indicazioni e discussioni con il superiore Gareth. Quest’ultimo è il collega più critico nei confronti del protagonista, e nel corso della notte sarà costretto a licenziarlo.
È in questo momento che la forza morale di Ivan emerge, perché egli continua imperterrito a lavorare “virtualmente” al progetto, nonostante il licenziamento. Sente quel lavoro come suo e nega ad altri individui qualsiasi interferenza.
Più il tempo trascorre e più assistiamo all’inesorabile rovina della vita del protagonista, visibilmente stressato ma ancora ottimista riguardo alla possibilità di sistemare ogni cosa.
La delusione e la rovina
A differenza di altri film in cui l’adulterio è parte della trama, in Locke il protagonista si mantiene distaccato nei confronti del tradimento che ha commesso una volta sola; nelle telefonate con Bethan, la donna in procinto di partorire, le comunica addirittura che non può sapere se la ama perché non la conosce.
Quello che potrebbe sembrare cinismo è in realtà il lucido esame di realtà da parte di un uomo che cerca di mantenere il controllo su situazioni più grandi di lui. A differenza di Ivan e Bethan, lui e Katrina si conoscono benissimo, hanno due figli, e proprio in virtù di questo rapporto la delusione della moglie sarà maggiore: la lealtà riposta nella razionalità di Ivan si rivela eccessiva nel momento in cui la donna apprende del tradimento.
Mentre accompagniamo Ivan nel corso di questo lunghissimo, drastico viaggio si sviluppa quel fisiologico processo di conoscenza che ci porta a contatto con lui, mettendoci sul suo stesso piano.
Verso la fine del viaggio, quando la vita di Locke è ormai rovinata da una decisione sbagliata (o giusta, dipende dai punti di vista), siamo scossi dalla facilità con cui il mondo circostante potrebbe abbatterci e dalla vulnerabilità della volontà individuale, incapace di resistere agli urti esterni fino alla fine.
Locke è un film atipico non solo per la forma in cui si presenta, ma anche e soprattutto perché è un thriller che fa leva su tutti quei piccoli elementi che potrebbero andare male nella vita di ciascuno di noi in condizioni simili, rendendo la storia verosimile e al tempo stesso inquietante.