Lost rappresenta con buona probabilità una specie di spartiacque nel mondo televisivo, l’anno zero delle serie tv. Non che prima non ci fossero o non avessero un certo successo, ma la serie creata da J. J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber ha segnato un punto di svolta fondamentale per l’universo delle serie televisive.
Di Lost si potrebbe parlare per ore, giorni, forse mesi, tante sono le tematiche toccate direttamente e indirettamente. Fede, filosofia (tra l’altro alcuni dei nomi riprendono vecchi filosofi: Locke, Hume, Rousseau), fisica, solitudine, teologia, forza di volontà, natura umana, misticismo, interiorità e molto alto ancora.
La storia prende vita quando nel settembre del 2004 il volo 815 della Oceanic Airlines si schianta su un’isola ignota, facendo dei sopravvissuti veri e propri naufraghi. Da quel momento le vite dei losties – cosi soprannominati dai fan – si intrecceranno in più direzioni, e nell’evolversi della storia, grazie ai ripetuti flashback, lo spettatore si renderà conto che l’intreccio non è limitato al presente, ma coinvolge anche l’arco temporale passato, prima del naufragio sull’isola.
In questo articolo verrà indagato quello che è uno dei protagonisti principali di Lost: il Tempo.
Nella fisica classica il tempo, al pari dello spazio, è considerato un’entità assoluta, indipendente dagli osservatori e da loro percepito allo stesso modo, ovunque si trovino. Un concetto di tempo che si sposa con quello del senso comune e che determina una distinzione netta fra passato, presente e futuro: ogni evento scorre attraverso questa triade lineare unidirezionale e costituisce un’istanziazione del fluire temporale. In tal senso solo il presente è reale, perché il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora.
Con il superamento della fisica classica e l’avvento della meccanica quantistica, la nozione di tempo si è distanziata sempre più dal senso comune, ma, per quanto interessante, questo non è il luogo adatto per andare oltre.
È invece importante cercare di capire come in Lost il tempo si evolva, al pari dei personaggi, quasi costituisca non lo sfondo della struttura narrativa, bensì il nucleo. Per far questo è necessario un lavoro di decostruzione temporale, andando ad analizzare le declinazioni del tempo e le loro conseguenze sulla narrazione.
Il tempo narrativo – l’illusione dell’oggettività
Questa è la concezione del tempo che più si avvicina all’oggettività, o meglio, è una forma della realtà che è oggettivata dallo spettatore, il quale, essendo onnisciente, riesce a cogliere la linea narrativa e a distinguerla dai numerosi flashback e flashward (espedienti cinematografici per mostrare un lasso temporale precedente o successivo al tempo della storia narrata) della vita dei personaggi di Lost.
Il tempo è una linea retta e, da questa prospettiva, riusciamo a comprendere la catena degli eventi, quale istante sia presente, quale passato e quale futuro. Potremmo dire che ci troviamo davanti a quello che Bergson chiamava “tempo scientifico”, neutro, misurabile, un tempo spazializzato in cui gli istanti sono concatenati, ma distinguibili.
Lo spettatore segue dunque, in questo sfondo pan-temporale, il fluire della narrazione e si immedesima nei personaggi che cercano con ogni mezzo di scappare dall’isola, prima con la speranza di essere trovati, poi con la consapevolezza di essere stati abbandonati dal mondo. Così, puntata dopo puntata, lo scorrere lineare del tempo narrativo invita lo spettatore a concentrarsi più sull’altra forma a priori della sensibilità, per dirla con Kant, ovvero lo spazio.
La domanda principale che si pone chi guarda Lost – e che si pongono gli stessi losties – è infatti la seguente: dove siamo?
Una delle trovate più geniali degli autori di Lost è che si può rispondere a questa domanda solo utilizzando la categoria temporale, ma questo lo spettatore delle prime stagioni ancora non lo sa. Interessante perché ricorda il passaggio dalla fisica classica alla fisica moderna, quando, con la relatività ristretta, Einstein teorizzò che il tempo non fosse assoluto, ma relativo alla velocità e al riferimento spaziale degli osservatori, tant’è che sarebbe stato più corretto parlare di spaziotempo.
Il tempo percepito (dai personaggi)
C’è un personaggio che più degli altri lotta contro il Tempo, in tutti i sensi: Desmond Hume. Egli non fa parte dei sopravvissuti del volo 815, ma è naufragato sull’isola tre anni prima. Da quel momento si è occupato di gestire un computer che, se controllato ogni 108 minuti, avrebbe impedito una gigantesca esplosione elettromagnetica.
In seguito ad una serie di eventi – che coinvolgono anche i sopravvissuti del volo – Desmond viene coinvolto nell’esplosione elettromagnetica e al suo risveglio, nella terza stagione, la sua coscienza inizia ad infrangere le regole del tempo. Egli non solo ha dei momenti di preveggenza, grazie ai quali riesce a salvare alcuni personaggi dalla morte, ma la sua mente lo porta ad intermittenza nel passato, al punto di credere prima che l’isola sia stato un sogno, e poi ad avere la percezione di poter cambiare parte del suo passato.
Solamente grazie all’aiuto di Daniel Faraday, uno scienziato giunto sull’isola per studiarne le eccezionali proprietà, Desmond riuscirà a rimanere ancorato al tempo e alla realtà. Infatti il Faraday del presente dice a Desmond che, una volta sbalzato ancora nel passato, avrebbe dovuto cercarlo nell’università in cui studiava da giovane.
I due nel passato riescono a capire che ciò di cui ha bisogno Desmond per non perdersi in un limbo senza tempo è una costante che sia presente in entrambi i momenti temporali (1996 e 2004): quella costante è la sua fidanzata, Penny.
Drammaticamente poetica la scena in cui Desmond chiama Penny nel presente, dopo che 8 anni prima, grazie al consiglio di Faraday, l’aveva rintracciata (a quel tempo lei lo odiava) per implorarla di farsi dare il suo numero, che avrebbe utilizzato solo dopo 8 anni, la sera della vigilia di Natale.
Con Desmond la struttura del tempo cambia forma, si fa più soggettiva, quasi a creare un collante fra memoria, coscienza ed immaginazione. Si potrebbe azzardare che si avvicina a quello che Bergson chiama “durata reale”, ovvero il tempo percepito dalla coscienza e influenzato dagli stati emotivi. Oppure al tempo fenomenologico di Husserl, un insieme infinito di esperienze vissute dal soggetto e presenti alla sua memoria e alla sua coscienza quasi come se il tempo non scorresse.
Ciò che accade a Desmond non è che un preludio ad un cambiamento totale delle dinamiche temporali di cui l’isola sarà oggetto – e soggetto. Alla fine della quarta stagione, al fine di difendere l’isola dagli uomini sulla nave cargo, attraverso un complesso meccanismo, questa verrà “sganciata dal tempo”. Fino a che il meccanismo non verrà interrotto, l’isola viaggerà caoticamente nel tempo, sfumando sempre più la percezione di passato, presente e futuro dei personaggi.
Il tempo chiuso – Il principio di autoconsistenza di Novikov
Il principio di Novikov si fonda sull’idea che il tempo sia un “sistema” chiuso e che il passato sia immutabile. Un evento è determinato non solo dagli eventi passati, ma anche da quelli futuri. Cambiare un evento del passato è dunque impossibile e, spesso, cercando di modificarlo si contribuisce, in maniera più o meno determinante, alla sua effettiva realizzazione.
Il tempo non è più una linea retta, ma un cerchio, nel quale passato, presente e futuro sono indistinguibili, se si è all’intero di quel cerchio – come lo sono i Losties. Ogni evento è destinato a ripetersi infinite volte, in un’equazione che non contempla variabili.
Il riferimento più immediato è quello all’Eterno Ritorno dell’Identico di Nietzsche, che riprende la ciclicità del tempo già in auge fra gli antichi greci e gli stoici e ne fa un ostacolo che solo l’Oltreuomo è in grado di superare, accettando l’impossibilità di controllare le vicissitudini che si susseguono in un ciclo eterno.
Più volte il grande schermo ha costruito le sue sceneggiature su questo principio: Terminetor, Predestination, Dark, per citarne alcuni. Ogni volta il futuro influenza il passato in un modo radicalmente opposto a quanto voluto dai protagonisti, perché ciò che si crea non è mai una realtà alternativa a quella attuale, ma piuttosto il compimento di quello stato di cose punto di partenza delle loro peripezie e che invano hanno cercato di modificare.
In realtà quello a cui si assiste all’inizio della quinta stagione di Lost, dopo che l’isola si delocalizza temporalmente, è una frammentazione del tempo.
“L’isola immaginatela come un disco che sta girando su un piatto, solo che ora quel disco sta saltando”
dirà Faraday. Passato, presente e futuro sono ancora su una linea retta, ma, invece che scorrere, è come se il tempo saltasse da un punto ad un altro della retta, continuamente e in ogni direzione.
Solo una volta stabilizzato il tempo, trovandosi permanentemente nel 1977, i Losties cercheranno di “correggere” gli eventi del passato che hanno contribuito in maniera rilevante alla caduta del volo 815 e a tutto ciò che ne è derivato: morte, dolore, guerra con “gli altri”, caos. Così sarà proprio il loro tentativo di bloccare l’energia elettromagnetica, situata sotto la superficie dell’isola, con una bomba che darà il via al corso degli eventi che condurrà alla necessità di un computer di controllo per tale energia e – a causa di un mancato controllo – alla caduta del loro volo nel 2004.
Anche il tentativo fallito di uccidere Ben – il capo degli altri, loro nemici sin dall’inizio – nel passato, quando ancora un bambino, determinerà la corrosione del suo animo e le scelte che compirà da adulto.
Insomma, ogni tentativo di correggere la successione temporale si rivela determinante nella realizzazione della stessa. Passato, presente e futuro sembrano dissolversi e lasciar posto ad una struttura del tempo atemporale, come fosse un eterno presente.
Capisco che sia più facile accettare che, almeno teoricamente, il passato si possa cambiare, così come insegna Ritorno al futuro, oppure Looper. Quante volte viene da pensare alle scelte fatte in passato e a come sarebbe cambiata la nostra vita se ne avessimo fatte altre, creando nella nostra mente infinite realtà parallele.
È un pensiero confortevole, che ci coccola e ci lascia una finestra sulla nostra immaginazione, dalla quale guardare al passato con una dolce incertezza. Ma può diventare il più frustrante e terribile dei pensieri se ci costringiamo a credere che le scelte fatte sarebbero potute non essere le migliori possibili, condannandoci a ‘vivere’ in un passato altrettanto immutabile.
La verità è che sia dal punto di vista pragmatico che da quello gnoseologico poco importa se il nostro sia un tempo ciclico o lineare. Perché le nostre scelte determinano ciò che siamo in ogni caso e accettare quelle scelte significa accettare se stessi.
Inoltre per chi abita il tempo, per chi abita nel tempo, non ha senso chiedersi che ‘forma geometrica’ abbia, perché solo un osservatore esterno, fuori dal tempo, che trascende il tempo, potrebbe tendere ad una conoscenza oggettiva di esso.
Concludo con una delle più significative frasi che siano mai state dette sul concetto di tempo, da Sant’Agostino ne “Le Confessioni”: