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Edward Hopper ed Alfred Hitchcok – La Meraviglia delle Arti

Sonia Cortese

Novembre 8, 2018

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Il cinema è detto “settima arte, in virtù della sua interdisciplinarietà con altre Arti. Nello specifico, l’arte figurativa è la madre della fotografia e della cinematografia. Spesso, guardando un buon film, non ci rendiamo conto di quanto un regista abbia attinto ispirazione da capolavori della storia dell’arte. Ci sarebbe una grande varietà di esempi per dimostrarlo – a proposito, per i curiosi, vi sono i video “Film meets Art” di Vugar Efendi – ma c’è un caso in particolare nella storia, che lega il più importante pittore realista americano con il regista maestro del brivido per eccellenza: Edward Hopper ed Alfred Hitchcock.

I due hanno in comune più di quanto si possa immaginare, basterebbe confrontare alcuni dipinti con dei frame dei film: due menti assai ispirate, l’uno dall’opera dell’altro, contemporanei, complici e colleghi, entrambi divenuti capisaldi della cultura americana del Novecento. Hopper è stato un artista che ha vissuto a lungo (è nato nel 1882 e morto nel 1967) e di conseguenza ha attraversato con la sua opera varie fasi artistiche e stili, lasciando infine una grande eredità, sia quantitativa, sia dal punto di vista culturale. Il giovane Edward Hopper, attratto dal Realismo e Impressionismo, ha viaggiato in Europa e soggiornato a Parigi. Qui  trovò la sua vocazione di pittore e iniziò a definire la sua cifra stilistica.

Frutto del viaggio, è Soir Bleu del 1914, già dal suo formato pare essere un frame cinematografico, divenuta simbolo dell’alienazione umana; il dipinto fu anche esposto nella sua prima personale nel 1920, con la quale Hopper si presentò al mondo.

Riconosciamo le opere di Hopper dai personaggi che rappresenta, dai luoghi in cui li colloca e dallo studio sulla luce, elemento importantissimo.

Dimostrerà sin da subito il suo interesse nella rappresentazione degli interni-esterni, novità nel panorama artistico americano, che prediligeva unicamente vedute di paesaggio: le finestre dei palazzi di New York diventano fondamentali per questo studio. Esse sono mezzi di osservazione della società americana, sono ponti tra l’occhio dell’osservatore e la moderna realtà quotidiana: infatti, essa non è tanto favolosa quanto il mito americano fa credere. Il pittore ha il compito semplicemente di riportarlo su tela, sensibilità tipica del Realismo.

Hitchcock, in seguito al suo arrivo ad Hollywood (dal 1940), si confronterà con questa stessa sensibilità, condividendola nei suoi film: non vi è una esplicita denuncia sociale (si sarebbe potuta attaccare l’incomunicabilità della gente moderna, tradotta nella progressiva alienazione dell’uomo, durante la Grande Depressione) ma invece vi è una semplice rappresentazione di ciò che l’artista vede, e la “denuncia” trapela da sé. Basti osservare i soggetti hopperiani, caratterizzati da uno sguardo vuoto: gli occhi – già in Soir Bleu – sono macchie nere, privi di bulbi oculari e dunque inespressivi, alla Modigliani maniera o come Assenzio di Degas.

Automat, 1927.

I soggetti di Hopper sono uomini e donne apatici, raccolti in loro stessi nella loro solitudine inconsolabile. Pare che siano assorti in un’altra dimensione, così come anche l’ambiente in cui si trovano, rarefatto: essi spesso si trovano in luoghi “non-luoghi”, vuoti, oppure tanto comuni quanto anonimi (il bar, una casa, una camera da letto, un motel, un cinema) e il loro silenzio trasmesso diventa per lo spettatore assordante. Sembrano set cinematografici artefatti, abbandonati dalla troupe una volta girata la scena.

Early Sunday Morning, 1930; Hotel Room, 1931.

Case isolate in paesaggi desertici oppure circondate da boschi fitti e bui, trasmettono atmosfere di mistero, al limite del surreale. Sembra che qualcosa di poco rassicurante stia per accadere. Luoghi perfetti per l’ispirazione di un thriller!

Cape Cod evening, 1939; House by the raily road, 1925.

IL RAPPORTO CON HITCHCOCK

Dunque, dai quadri di Hopper emerge spesso la sensazione che qualcosa di strano stia per succedere, talvolta mettono soggezione. Questa considerazione si può benissimo estendere anche ai personaggi: sembra che, a momenti, stiano per dirci qualcosa, ma restano congelati e impassibili. Nel loro mutismo, comunicano col non-verbale. La scena ci insospettisce, allora ci chiediamo inconsciamente “come andrà a finire?”. Ed entriamo automaticamente in uno stato di suspense, proprio la cifra stilistica del maestro del brivido Hitchcock, la chiave secondo lui per tener sempre catturata l’attenzione. Ed ecco che i quadri di Hopper diventano frames di una pellicola di un thriller. Per entrambi i casi il coinvolgimento è tale che lo spettatore partecipa alla scena non in terza persona, ma in seconda.

Può darsi che Alfred Hitchcock, fautore della suspense anziché del jumpscare, si sentisse per questo ispirato da Hopper. L’alone di mistero che aleggia nei dipinti dell’artista si concretizza in una tra le case più famose nella storia del cinema: la dimora di Norman Bates in Psycho del 1960, palesemente ispirata a “Casa vicino alla ferrovia”, 1925. Una casa tipica americana, bianca, col portico, di ispirazione vittoriana: ha l’aria di essere disabitata, ma al suo interno potrebbe celare l’inaspettato. Una volta viste accostate, l’associazione mentale è immediata.

Non è solo la casa di Norman Bates a ricordarci Hopper:

Conference at night, 1949; Summer in the city, 1950.

 

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IL VOYEURISMO

Come già accennato in precedenza, Hopper ha condotto numerosi studi sulla resa della luce e sul rapporto interno-esterno degli ambienti, testimoniati dalla serie di windows paintings. È come se attraverso uno sguardo furtivo e fasci di luce indagatoria riuscisse a mettere su tela momenti della vita reale, quella non delle apparenze ma quella più sincera, rubata all’intimità di uomini e donne. E le grandi finestre degli appartamenti newyorkesi sono espedienti perfetti.

Anche noi ci introduciamo, in atteggiamento voyeuristico, nella privacy dei cittadini, come una “zoommata” dal generale al particolare in una ripresa cinematografica hitchcockiana. Abbiamo dei soggetti “in vetrina”, ignari di essere osservati: è palesemente Rear Window (“La finestra sul cortile”) la pellicola girata da Hitchcock nel 1954. Il protagonista Jeff, un fotoreporter, bloccato a casa con un gesso alla gamba, trova il suo passatempo nell’osservare dalla finestra  tutti gli inquilini del suo vicinato dal mattino alla sera, venendo a conoscenza delle abitudini e segreti di ciascuno, anche i più terrificanti. Hitchcock per questo film ha voluto ricreare su misura il cortile di queste abitazioni, dal caratteristico mattone rosso, e far svolgere tutta la vicenda solo attorno a questo set: si ha la sensazione di stare come di fronte a un grande archivio con tanti cassetti (le finestre degli appartamenti) che conducono a storie differenti.

Room in Brooklyn, 1932; Night windows, 1928.

Ebbene, è il realismo  del mito americano dal risvolto drammatico che Hopper raffigura, un po’ quello che è stato per Scott Fitzgerald nei suoi romanzi. E dramma è thriller nel linguaggio del cinema, e il thriller è anche Hitchcock.

È incredibile quanta ispirazione l’opera di Edward Hopper abbia dato: egli ha lasciato una forte eredità sviluppatasi nella cultura pop, in ogni campo dell’espressione visiva, dalla fotografia al cinema, dall’illustrazione alla pubblicità. È considerato l’artista più cinematografico, per via della sua sensibilità accolta successivamente da molti registi, non solo Hitchcock, ma anche Hebert Ross (“Spiccioli dal cielo”), Wim Wenders (“Non bussare alla mia porta”), David Lynch (“Twin Peaks”).

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