Il film “The children act: il verdetto”, uscito nel 2017 e diretto da Richard Eyre, è basato sul libro “La ballata di Adam Henry” di Ian McEwan che ha adattato in prima persona il proprio racconto, tratto da una storia vera, al linguaggio cinematografico. L’attrice Emma Thompson interpreta mirabilmente il personaggio di Fiona Maye, giudice dell’Alta corte britannica, calandosi in una figura il cui spirito tormentato si risolve con una grazia suprema in decisioni del tutto risolute, prese apparentemente con un fare gelido e imperturbabile.
La storia ruota attorno al personaggio di Adam, diciassettenne testimone di Geova e affetto da leucemia. La sua possibilità di sopravvivenza è tirata come una corda da ambo i lati: da una parte i genitori e la comunità protestante che lo spingono ad accettare tutte le cure fuorchè la trasfusione perché “sbagliata secondo Dio” – in quanto il sangue è visto come soffio vitale e quindi sede dell’anima – dall’altra il personale dell’ospedale che fa presente come i medicinali siano insufficienti e come la trasfusione sia determinante per la salvezza della sua vita.
La diatriba è portata in tribunale ove il giudice Fiona Maye, specializzata in diritto di famiglia, è chiamata ad ascoltare le parti e a decidere del destino del ragazzo. Delizioso e privo di sbavature è il modo in cui è dipinta la dialettica tra il suo muoversi sempre apparentemente con un’ineguagliabile leggiadrìa al di sopra delle cose e i suoi retroscena privati, che vanno dalla controllata isteria nel suo studio prima di entrare in aula alla crisi col marito.
Eyre, tramite la rappresentazione di questa tipologia di persona, si avvicina dunque pericolosamente ma, fortunatamente, solo asintoticamente alla possibilità di farle abbracciare uno sterile stereotipo di donna che ha impiegato la sua vita coincidendo in toto con la sua stessa professione, come se la stessa esistenza finisse col diventare nulla più che una deformazione professionale. A mio parere non vi è quindi aderenza allo stereotipo per il semplice motivo che questo è acquisito e superato dal giudice Fiona Maye, per cui esso riesce a concretizzarsi, rendendosi individuale in lei , che lo squarcia con la sua disperazione celata e non.
Ogni personaggio di questa storia sembra muoversi come una sorta di Antigone moderna, scissa tra legge interiore e legge dello stato. Adam (Fionn Whitehead) è diviso tra il voler continuare a vivere e la sua legge morale, coincidente con quella religiosa, che gli impedisce di farlo, perché il mescolamento del proprio sangue con quello di un altro individuo implicherebbe una perdita della propria identità originaria. I suoi genitori e la comunità protestante vivono lo stesso dramma, cruciale per i testimoni di Geova, insulso e di ovvia soluzione per chi non lo è. Il giudice Maye, in quanto rappresentante della legge dello stato che prevede di operare trasfusioni sui minori che ne necessitino, anche nel caso in cui questi siano di religione protestante, si sente massimamente parte in causa, in quanto è la personificazione di ciò che una legge morale, frutto di un credo religioso, respinge.
Questa è la ragione per cui ella decide di attuare l’insolita scelta di visitare di persona Adam, il ragazzo malato di leucemia, come se avesse l’esigenza di dare un volto a quella vita smembrata tra credo religioso e pulsione di autoconservazione, di sentire concretamente sulla sua pelle quel bruciante dolore. Nel ghiaccio di quegli occhi così apparentemente freddi, ma di fatto ardentemente vivi, Fiona vede qualcosa che forse non ha mai scorto fino a quel punto: un totale e radicale attaccamento alla vita che sembra muoversi a passo di danza tra le note di poesie di William Yates suonate alla chitarra.
Il costitutivo bisogno umano di una figura di riferimento, di una comunità a cui affidarsi, di “una nuova fatina dei denti” a cui credere è un elemento terribilmente bruciante in Adam che, sebbene esponga fermamente le sue ragioni, si abbandona totalmente al giudice Maye, come se quel bel rilassante volto di signora di mezza età potesse essere la riserva di tutte le risposte a ogni possibile domanda. Emerge quindi chiaramente l’idea della religione come fantoccio, come ennesima delle illusioni a cui attaccarsi per dare un senso alla propria vita: essa, in quanto tale, appare dunque facilmente sostituibile da una voce calda che richiami alla vita come valore in sé supremo, a prescindere da Dio. Eyre dipinge quindi una storia straziante che nasce nel dolore, si affaccia alla più profumata delle speranze per poi concludersi nel più inaggirabile dei sensi di colpa.