Vertigo: La donna che visse due volte – Un indimenticabile ed immortale capolavoro

Maura D'Amato

Febbraio 18, 2019

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Nel 1958 Alfred Hitchcock dirige La donna che visse due volte. Capolavoro senza tempo del regista, non riscosse molto successo alla sua uscita, probabilmente per i temi troppo all’avanguardia per quell’epoca. Ad oggi viene considerato  tra i film più belli ed influenti di sempre.

Un film di ieri, che contestualizzato ad oggi, supera la prova del tempo divenendo eterno. Vertigo, questo il titolo originale, è la più bella, crudele e perversa love story di Hitchcock. Non un film d’amore, bensì un film sull’amore. Un amore in senso lato, sublime e devastante allo stesso tempo. Un sentimento che prende forma da qualcosa di irreale, idealizzazione della mente. Un innamoramento di una donna che non esiste. Il film è una parabola di un ideale perfetto in un mondo deforme.

Il prologo ci mostra John “Scottie” Ferguson, poliziotto che durante un inseguimento si imbatte in un incidente in servizio, a causa della sua sofferenza da vertigini.  Lascia la polizia e accetta di lavorare per un vecchio compagno di scuola, Gavin Elster, che gli chiede di sorvegliare la moglie Madeleine, la quale in ricorrenti stati di incoscienza, sembra essere posseduta dallo spirito di Carlotta Valdes, sua bisnonna morta suicida all’età di 26 anni. Madeleine infatti trascorre intere giornate a guardare il ritratto della sua antenata, si raccoglie i capelli nello stesso modo, compra gli stessi fiori che Carlotta stringe nel quadro che la ossessiona. Ferguson resta affascinato dalla donna e quando è costretto a intervenire per salvarla da un tentativo di suicidio in mare, tra i due ha inizio una storia d’amore.

È in questa prima parte del film che si vede la maestria del regista sotto diversi aspetti. Parliamo di circa 60 anni fa, ma le riprese sembrano attuali, si nota un ottimo uso dei colori, prevalentemente verde e rosso, colori brillanti, contrastati da una colonna sonora spesso angosciante. Questa contrapposizione, tipica del maestro, simboleggia il realismo della vita. Metafora del velo di tristezza che si adagia lentamente sugli uomini.

Si nota inoltre il tema principale dell’opera: la vertigine. Lo spettatore si cala totalmente nei panni di Scottie che ha paura dell’altezza. La tecnica inventata dal regista proprio per questa pellicola (carrellata indietro con zoom in avanti), fa immedesimare lo spettatore sin da subito nel turbinio impetuoso della vertigine. E ancora, il motivo della spirale, simbolo della vertigine, emerge fin dai titoli di testa. Si ripresenta nello chignon di Madeleine, nei cerchi concentrici delle linee del tempo nel tronco di sequoia, nella scala a chiocciola del campanile della missione, negli incubi di Scottie ricaduto nella sua malattia.

Ed ecco quindi che dopo i soli primi 60 minuti del film, ci rendiamo subito conto di trovarci di fronte ad un altro capolavoro del maestro. Ma Hitchcock questa volta si spinge ancora oltre. La storia infatti potrebbe terminare qui, come un tragico epilogo di un amore segnato dalla pazzia e dall’impossibilità. Tuttavia è solo da questo momento, che il racconto ha realmente inizio.

Ciò che caratterizza lo stile Hitchockiano è la comprensione graduale dell’intrigo. Una sorta di piramide, dove ad ogni gradino lo spettatore si addentra sempre di più nella trama che si infittisce.  E’ qui infatti, dopo la morte della bella donna, che si passa al gradino successivo. Scottie ha perso per la seconda volta una persona a lui cara a causa della sua acrofobia. Frastornato dal senso di colpa, non si rinchiude più nella memoria della donna, ma trasporta la sua immagine nella realtà.

Ferguson cerca la propria Madeleine ovunque. È come se la sua malattia avesse mutato forma, trasformandosi in una vera e propria ossessione.  Ripercorre tutti i luoghi in cui ha vissuto i suoi momenti con la donna, crede di rivederla, nel ristorante in cui l’ha vista per la prima volta, accanto all’auto che l’aveva portata sino alla Baia di San Francisco, nelle altre donne bionde, Ferguson cerca sempre e solo Madeleine. Fino a quando in una delle sue “passeggiate commemorative”, gli occhi tristi del nostro detective non incrociano quelli di una giovane brunetta, Judy.  Gli sguardi si incrociano e Scottie crede di rivedere la sua Madeleine. Le due donne sono identiche, se non fosse per il colore di capelli e per l’evidente differenza di classe sociale.

I due iniziano una frequentazione  ed è qui che si svela “l’inganno” del titolo. La donna che visse due volte è in realtà Judy, che si siede alla scrivania della stanza d’albergo in cui alloggia, e inizia a scrivere una struggente lettera per Scottie, con la quale il regista svela tutta la verità allo spettatore.

 Judy è una sosia della vera Madeleine, moglie di Gavin. Ferguson in realtà è innamorato di una donna che non esiste e che non è mai esistita. Si è innamorato del personaggio interpretato da Judy, è vittima innocente di una tragedia familiare che si è consumata dinanzi ai suoi occhi senza che egli se ne rendesse conto.

Gavin lo ha chiamato per testimoniare il suicidio di sua moglie, che in realtà non è avvenuto affatto. L’uomo aveva un amante, Judy, la quale ha interpretato Madeleine in tutti i momenti in cui ella si intratteneva con Scottie e nel momento in cui sale le scale del campanile, Ferguson non la segue a causa della propria fobia. In cima alla scalinata c’è la vera Madeleine e suo marito, il quale, dopo averle spezzato il collo, la getta giù, sbarazzandosi per sempre di lei. Gavin era consapevole della fobia di Scottie e per questo lo sceglie. Era consapevole che Ferguson non sarebbe mai salito fin su al campanile, e che quindi avrebbe testimoniato il suicidio della giovane donna, senza mai scoprire la realtà.

Judy però distrugge la  lettera non appena finisce di scriverla. Solo lo spettatore quindi, è a conoscenza della grande menzogna che fa da sfondo a questa storia d’amore, ma non Ferguson, il quale è ignaro (ancora per poco) di ciò che è stato architettato a sua insaputa. Ma l’intrigo si complica ancora di più scoprendo ciò che non era previsto: Judy si innamora di Scottie.

L’amore di Judy però, è logorato dal senso di colpa per il crimine commesso (essendo complice di Gavin) e dalla consapevolezza di aver manipolato Scottie, vittima innocente di una grande farsa. Per questo Judy, subisce la frustrazione di un amore non corrisposto, che è al contempo realtà e sogno, il passato e il presente. Judy è frustrata soprattutto perché sa di essere l’oggetto del desiderio di Scottie, ma sa anche di non essere amata realmente per chi è veramente.

È qui che il regista affonda le sue radici, ponendoci la ricorrente domanda di cosa sia veramente quel sentimento chiamato amore. L’amore viene visto come un qualcosa di forte, potente, intenso, ma al contempo irreale. Il protagonista è innamorato di un’idea. Nel 1958, Hitchcock getta le basi per analizzare questo mondo, che è tanto bello, quanto finto. Cosa è reale? Quello che vediamo o quello che sentiamo? E se quello che sentiamo è dato da qualcosa che non è reale? Spunti di riflessione che si protraggono negli anni, portati su uno schermo in 128 minuti.

E se ancora tutto questo non è abbastanza per qualcuno, il regista osa ancora di più, facendo calare James Stewart nei panni di Ferguson che pur di ritrovare la sua Madelaine, costringe Judy a trasformarsi in essa. Stupenda la scena in cui  esce dalla stanza vestita e pettinata come Madeleine, venendo come fuori da una nebbia e diventando poi sempre più reale. Scottie la guarda come se tornasse dall’aldilà e la prende tra le sue braccia.

Ma un piccolo dettaglio che non può sfuggire agli occhi di un ex detective rivela la verità anche a Ferguson, il quale è determinato a smascherare l’inganno. Obbliga Judy a rivivere il tragico giorno in cui è morta la vera Madeleine e le fa salire le scale del campanile, ma questa volta anche Scottie le salirà riuscendo a vincere la propria fobia. Nella scena finale Judy è messa faccia a faccia con la propria coscienza e con il crimine di cui si è resa complice. Ed è così che quando un’immagine lugubre e tetra come il senso di colpa emerge dalla botola che porta in cima al campanile, ella indietreggia spaventata e precipita sul tetto sottostante.

Solo allora Scottie può sporgersi dal cornicione del campanile e guardare in basso senza essere colto dalla vertigine. L’ossessione è terminata, il passato ha inglobato il presente, la spirale si è chiusa in un cerchio e Scottie resta vittima del fato e di se stesso, in bilico sull’orlo di un precipizio che ormai non lo spaventa più.

E con questo ennesimo spunto morale si chiude questo gioiellino del cinema, lasciandoci la mente invasa da mille pensieri e una grande empatia verso il protagonista ossessionato dall’amore. L’ossessione per una donna che non c’è, anche se visse due volte.

 

Leggi anche: Gli uccelli – L’angoscia dell’essere umano

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