Nuovi Sguardi: intervista a Carmelo Segreto – Del Cinema Italiano e del Futuro

Gabriel Carlevale

Febbraio 19, 2019

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Dopo anni tormentati, sia da un punto di vista puramente economico che autoriale, il cinema italiano sta vivendo una nuova ondata di grande vitalità. Un fermento, messo in scena da tanti diversi e nuovi autori, che attraverso un nuovo sguardo, contribuiscono a dare nuova linfa alla nostra cinematografia. I già consacrati Garrone e Sorrentino, Cupellini, Genovese, Alice Rohrwacher, ma anche i giovani Piero Messina, Alessandro Capitani, Ciro D’Emilio, Letizia Lamartire, Valerio Vestoso e tanti altri. Se il cinema, pian piano, si sta accorgendo della nuova leva, la quasi totalità del merito è da ricercare nel mondo dei cortometraggi, fucina di talenti che non smette mai di alimentare il suo sacro fuoco. Tra i giovani più interessanti, c’è senza dubbio Carmelo Segreto: 27 anni, siciliano, Carmelo è un giovane regista che ha dato già mostra delle sue capacità con il documentario Voglio essere Libero (dedicato alla memoria di Libero Grassi) e Un giorno alla volta, primo lavoro di finzione distribuito in Italia e all’estero (tra cui Cannes), dove ha ricevuto consensi e riconoscimenti, come il Premio Giulio Questi e il premio Rai Cinema Channel al Social World Film Festival. Da poche settimane, è iniziata la distribuzione del suo nuovo lavoro, dal titolo Humam. In una calda giornata romana, lo abbiamo incontrato per parlare di cinema e speranze future.

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Ciao Carmelo. Al di là della solita retorica, è bello essere qui con te oggi. La prima domanda, forse, è la più classica che si possa fare, quindi ti chiedo come è nata in te la passione per il cinema, o meglio, la voglia di fare cinema.

È nata con il tempo. Il cinema è stata subito una grande passione, ma la vivevo esclusivamente da spettatore. La folgorazione è arrivata nel 2010, quando da giurato per la sezione giovani, ho partecipato al Festival di Taormina. Incontrando personalità del calibro di Kusturica, De Niro e tanti altri, mi sono trovato in un universo che mi ha completamente scioccato, probabilmente anche grazie al fatto che una città meravigliosa come Taormina rendesse quei giorni come un’avventura in un mondo fatato. La prima intenzione fu quella di fare l’attore, così mi iscrissi al Dams di Bologna e, successivamente, frequentai il Duse International di Francesca De Sapio, a Roma. Ero davvero convinto di fare l’attore, fin quando per caso mia madre mi inviò il bando del Festival della Memoria Corta, per realizzare un documentario su un episodio che riguardasse la memoria del paese. Così, armato di zaino e telecamera, sono sceso in Sicilia per raccontare la storia di Libero Grassi, un imprenditore ucciso dalla Mafia. In quel momento ho capito realmente la potenza del cinema, la forza della sceneggiatura, cambiando completamente la mia prospettiva e scegliendo la strada della regia.”

Una curiosità. Hai riferimenti di registi o film che ti influenzano o hanno influenzato i tuoi lavori?

“Più che registi, parlerei di film. Tra i contemporanei sicuramente Biutiful di Iñárritu, Reality di Garrone, Anime Nere di Munzi, Non Essere Cattivo di Caligari e Fuocoammare di Rosi. Parlando del passato, sicuramente c’è tanto neorealismo. Tra tutti Ladri di Bicilette di Vittorio De Sica e Roma Città Aperta di Rossellini, che tra l’altro ebbi la fortuna di vedere in piazza maggiore a Bologna. Altro riferimento fondamentale è Mamma Roma di Pasolini ma, allargando il cerchio, penso anche a tanti film “leggeri”: per esempio i lavori di Massimo Troisi, in cui ho sempre trovato una grande umanità. Stessa cosa per le opere di Roberto Benigni. Un altro film che mi ha particolarmente colpito, uscendo dai confini italiani, è Castaway on The Moon di Hae-jun Lee. Tutti film dove la costante è la ricerca delle tante sfaccettature dell’animo umano, che continua ad essere la cosa che più mi scuote.”

Nei tuoi cortometraggi sei regista e sceneggiatore, ma allo stesso tempo, anche produttore. Come concili questi due aspetti, è perché pensi sia così importante per te essere “a capo” dell’intero progetto?

“Per quanto riguarda la produzione, voglio essere il più chiaro e semplice possibile: la mia idea è che i cortometraggi, specie se già in scrittura hai un occhio di riguardo al futuro sviluppo, si prestano perfettamente ad una autoproduzione. Nei miei lavori, ho sempre ragionato cosi perché, come detto in precedenza, già al nascere della sceneggiatura, impostavo il tutto cercando di essere parco con i costi. Un giorno alla volta, per esempio, è stato girato in un solo giorno, con un solo attore, attraverso un budget molto limitato. Qui, devo fare un grande ringraziamento ad Andrea Planamente, un attore straordinario che ha dato al corto una grande parte di lui, con la sua umanità, fragilità, anche goffaggine buffa. In Humam, ambientato esclusivamente in un autolavaggio, con due attori e due giorni di lavorazione, il budget è decisamente cresciuto, essenzialmente perché penso che ad una crescita autoriale, debba corrispondere una crescita produttiva. A margine di questo discorso però devo aggiungere che personalmente amo gestire tutte le fasi, compresa la ricerca dei fondi (spesso di mia proprietà), oppure collaborare con persone interessate al progetto. Nel caso di Humam, alla produzione, hanno partecipato Raya Visual Art e Lorenzo Adorni, un giovane attore (nonché mio amico da anni), che ha voluto contribuire al progetto. In questa concezione che sento mia, ho preso ispirazione da registi che adottano la stessa metodica, esempio su tutti Nanni Moretti, un esempio incredibile di indipendenza totale nei suoi lavori, o lo stesso Matteo Garrone, che ha messo spesso in gioco le sue possibilità per garantirsi un controllo totale.”

Carmelo Segreto

Come ti muovi sul set? Hai già un piano di idee che cerchi di rispettare, o ti lasci anche guidare dalle sensazioni del momento, che magari possono anche sconvolgere quanto avevi precedentemente pensato.

“Come sempre, all’inizio cerco di programmare un po’ tutto. Su Humam, c’è stato un grande lavoro con Raya Visual Art, Simona Mondello (aiuto regista) e Tiziano Bernardini (DoP). Con loro abbiamo fatto il piano delle inquadrature, sopralluoghi ecc. Però, come sempre mi accade, alcune cose mi sono venute istintivamente sul set. Una delle scene clou del cortometraggio è stata cambiata totalmente durante le riprese e, a giudicare da com’è venuta, sono molto contento di questo. Per stravolgere completamente una sequenza, alla base ci deve essere (secondo me), una forte chimica tra te e i tuoi collaboratori, e in questo, con Tiziano Bernardini, sono riuscito totalmente.”

Nei tuoi lavori, emerge sempre una forte spinta verso il sociale e il lato antropologico degli esseri umani. Cosa ti spinge maggiormente ad affrontare questi temi, anche così importanti ai nostri giorni?

“Ad essere sincero, penso di avere una fortissima predisposizione all’osservazione del sociale, specie nei suoi aspetti più negativi. Quando ho lavorato al mio documentario su Libero Grassi (essendo io stesso siciliano), ho messo mano alla memoria per ricordare eventi o situazioni che magari non ho vissuto direttamente, ma che avevano una eco molto forte dalle mie parti. Negli anni del Liceo, ho incontrato la vedova Grassi, ascoltato diversi racconti su storie analoghe, maturando in me la ricerca di una consapevolezza maggiore nelle storie che volevo raccontare. In Un giorno alla volta, racconto la storia di un uomo impossibilitato ad uscire di casa, vittima di una fortissima depressione. Rispetto a questa tematica, che mi ha fortemente segnato, l’ispirazione è passata anche da un film, The End of the Tour, che racconta la storia di David Foster Wallace, uno scrittore morto suicida. La figura di questo autore mi ha aiutato a plasmare il mio protagonista, mostrando su di lui diverse sfaccettature, e quindi un aspetto buffo, ironico, ma con una fragilità evidente. In Humam, mi interessava parlare di una prevaricazione sociale (purtroppo un tema molto attuale), che un uomo immigrato subisce. L’idea alla base della storia, mi è venuta mettendo insieme un fatto personale (me stesso in un autolavaggio gestito da un ragazzo straniero) e un episodio di cronaca (il pestaggio di una barista da parte di alcuni membri del clan Casamonica a Roma). Istintivamente ho pensato a cosa sarebbe successo se mi fossi trovato in quel momento spettatore di quell’atto barbarico e violento, così ho pensato bene di lavorarci su. Inizialmente, non ti nascondo, avevo diversi dubbi, ma con l’andare del tempo ho trovato una chiave di lettura interessante e funzionale. Volevo raccontare il mio punto di vista su una tematica cosi corrente, che vede l’immigrazione come l’unico problema del nostro paese. Nel corto ne parlo in maniera molto brusca, questo perché alla base c’è un’idea pensata sul fatto che, al giorno d’oggi, assistiamo ad episodi di razzismo tutti i giorni, molte volte fatti con leggerezza, senza pensare minimamente a cosa viene detto. Il mio timore sociale non è il fatto che ci siano uomini politici che millantano chiusure di porti, intimidazioni razziali al grido di “prima gli italiani”, ma il fatto che si sta, da un punto di vista culturale, legittimando la possibilità di dire certe cose. Oggi in Italia i bambini, proprio a causa di questo clima, non hanno timore a lanciarsi in insulti razzisti. Questa cosa è molto più pericolosa di un politico, che alla fine può durare per un governo. Perché alimentare il concetto che sia possibile esclamare questo genere di ingurie ad una persona, con la scusante che le difficoltà del paese siano riconducibili esclusivamente agli immigrati, quando in realtà sappiamo bene quali siano i problemi, per me è totalmente ingiusto. Attraverso questo cortometraggio, mi premeva esprimere questo concetto.”

Parlando proprio di Humam, spiccano le partecipazioni di un attore importante come Aniello Arena e del maestro Giuliano Taviani, nonché di un sorprendente Miloud M. Benamara. Com’è stato lavorare con loro?

“Pensavo già ad Aniello Arena mentre scrivevo il personaggio dell’animale. Al di là di un discorso fisico, la mia passione per lui è nata con la visione di Reality, sicuramente uno dei tre film che negli ultimi anni mi ha sconvolto da un punto di vista creativo, artistico e cinematografico (gli altri sono Anime Nere e Fuocoammare). Così, dopo aver fatto la mia scelta, sono andato ad incontrarlo per proporgli il copione, trovandolo subito molto entusiasta della parte. Lavorare con lui è stata veramente un’esperienza incredibile per me, soprattutto crescere attraverso quanto è stato in grado di dare nelle prove e sul set. Con Giuliano Taviani è andata diversamente: una volta terminate le riprese, l’ho contattato per fargli vedere il pre-montato, cercando di incontrare il suo favore. Già solo l’idea di poter inviare lui qualcosa di mio, è stata una grande soddisfazione. Quando egli stesso ha espresso favore positivo, ci siamo messi al lavoro. Fin dalle prime demo, Giuliano ha capito il mood che volevo imprimere sulla colonna sonora, che arriva esclusivamente sul finale. Queste due collaborazioni per me sono stato davvero fondamentali a darmi  maggior forza e consapevolezza sui miei lavori. Per quanto riguarda Miloud, che interpreta il protagonista Humam, è stata una bellissima sorpresa. Tra di noi è nato subito un rapporto molto profondo: Miloud ha accettato immediatamente di mettersi nelle mani mie e dei miei assistenti alla regia Francesco de Francesco e Raffaele Grasso. Con lui abbiamo fatto tantissime prove, soprattutto sulle intenzioni, sulle transizioni da avere durante le riprese, in quanto il compito era mostrare un uomo totalmente prevaricato, messo in gabbia, in cui appare una forte stanchezza. In realtà, con lui non c’è stato un vero e proprio provino, ma una bella chiacchierata, in cui i suoi occhi mostravano una straordinaria vitalità, una tenerezza unica, che si è trasformato in un sì. C’è stato un lavoro incredibile sul suo personaggio, anche grazie all’aiuto di Francesco, Raffaele e  Francesca (la mia ragazza che insegna yoga ma si presta al mondo del cinema per i miei progetti), in modo da arrivare sul set già perfettamente preparati. Un’ulteriore gratifica per me è stato il suo riconoscere in questo ruolo la prova più importante tra quelle realizzate fino ad ora.”

In che modo, tra prove e set, ti approcci con l’attore? Sei anche tu convinto che, al di là della “fama”, il parametro fondamentale sia l’essere funzionale per la storia che vai a raccontare?

La scelta dell’attore è fondamentale. Per Un giorno alla volta, pensai subito ad Andrea Planamente. Non perché lo conoscessi o altro, ma avevo la convinzione che nessuno avrebbe potuto dare al personaggio quello che ha messo in campo lui. Aveva delle caratteristiche mimiche, facciali e caratteriali uniche, che sapevo di non ritrovare in nessun altro, magari anche più celebre. La cosa più bella è vedere che sotto i tuoi occhi si materializzano le idee che avevi pensato, e la fortuna vuole che questa cosa si stia verificando costantemente. In Humam, detto già di Arena, la ricerca sul protagonista è durata diversi mesi. Avevo bisogno di un attore che mostrasse un particolare candore, una sensibilità particolare, unica. Sarò sincero, se non avessi trovato Miloud, il corto probabilmente non lo avrei girato. Molto spesso per tante cose, comprese la fretta, si sbagliano scelte che poi ti costano l’intero lavoro. Anche per questo, ritornando al nostro discorso iniziale, mi piace gestire la produzione, in maniera di aver sempre sotto controllo il progetto, evitando problemi ed eventuali tempi e scadenze che una produzione esterna potrebbe importi. Quando ricevo dei complimenti sugli attori, per me è una grande soddisfazione, perché testimonia che il lavoro fatto è stato quello giusto. Mettere in condizione gli attori a dare il massimo è una delle peculiarità che ogni regista dovrebbe avere. In questo, due esempi per me sono Garrone e Virzì, autori in grado di toccare sempre le corde giuste per far sì che l’attore riesca a ritrovare qualcosa di unico dentro di sè.”

Per te che sei un giovane regista, com’è confrontarsi con delle personalità affermate come Arena e Taviani, e qual è la fiducia che si instaura tra di voi per dar vita ad una collaborazione?

“La cosa più importante è far capir loro che hai le idee molto chiare. Bisogna riuscire a trasmettere fin da subito le tue intenzioni. Con Aniello Arena ci siamo trovati da subito, e a proposito di questo posso raccontare un aneddoto: dopo aver parlato, egli mi ha chiesto che tipo di regista fossi, tra uno molto schematico, preciso con diversi vezzi di regia, oppure se nella mia concezione, ci fosse la possibilità di esplorare nel rapporto tra attore, personaggio e regia. Questo perché, mi raccontava, fosse una pratica molto usata con registi come Cupellini e Garrone. Un’idea, quella dettami da Arena, perfettamente riconducibile al mio stile di regia, dedito all’ascolto degli attori. Non che non ci sia una direzione, bensì lascio libertà all’attore di arrivare a quello che sto cercando. Un’altra cosa, per me fondamentale, è far capire la “fame” che hai di fare questo mestiere, una caratteristica che reputo sia il metro di giudizio per rapportarti con personaggi di questa caratura. Tra le cose che mi hanno colpito di più nella collaborazione, c’è soprattutto l’umiltà, una qualità rara. In nessuna occasione ho percepito da Arena, tantomeno da Giuliano Taviani, nessuna forma di superiorità, anzi, da subito mi hanno trasmesso una grande serenità, mettendosi a disposizione al loro meglio nel lavoro di un giovane, magari con cui collaborare anche in futuro.”

Negli ultimi anni, il cinema italiano sta recuperando i fasti degli anni migliori, soprattutto nel cinema d’autore. Qual è il tuo punto di vista in merito e, già che ci siamo, quali sono le tue prospettive future, magari in relazione ad un possibile lungometraggio?

“Sono molto fiducioso. Negli ultimi due anni ho visto film tanti bei film italiani, belli davvero, sia opere prime che film di registi alle loro prove successive. Non solo Garrone, Munzi, Cupellini o Alice Rohrwacher, ma tanti giovani autori stanno realizzando una serie di film davvero di grande valenza, per esempio A’Ciambra di Jonas Carpignano, Manuel di Dario Albertini, Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, Un giorno all’improvviso di Ciro D’Emilio, La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo, In viaggio con Adele di Alessandro Capitani, Saremo giovani e bellissimi di Letizia Lamartire, La stoffa dei sogni di Gianfranco Cabiddu e diversi altri. Opere prime che mostrano già una nuova visione interessante, anche proponendo tanti giovani attori. Altri esempi sicuramente Il primo Re di Matteo Rovere o Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, film importanti, a cui va riconosciuto l’allargamento delle prospettive del nostro cinema. Una cosa che ho notato è che, nonostante la vastità dei temi trattati, vige sempre un alto regime di qualità. Altro esempio è il film musical, che i Manetti Bros hanno riportato in auge. Un’altra cosa che bisognerebbe sdoganare nel nostro paese è la concezione che un ragazzo di 25, 26 anni, sia troppo giovane per poter fare l’opera prima. Bisognerebbe, a mio avviso, dare spazio subito ai giovani autori, anche responsabilizzandoli per metterli alla prova. Per quanto riguarda me stesso, posso dire che sto abbozzando un soggetto per un film, mettendo in circolo un po’ di idee che sto metabolizzando piano piano per vedere dove mi portano, per questo non posso anticiparti nulla. Sicuramente, è nei miei obiettivi arrivare quanto prima ad un lungometraggio. In questa ottica, i corti aiutano tanto ad acquisire una sorta di consapevolezza per potersi rapportare con un produttore, mostrando il percorso che i vari lavori hanno seguito. Chiaramente, a tutto questo deve essere accompagnato un lavoro serio sul progetto, un racconto messo in scena non tanto per fare (anche perché tanto per fare nessuno te lo produce), ma che abbia una sua forte valenza e che susciti interesse negli interlocutori con cui rapportarsi.”

 A fine intervista, io e Carmelo ci salutiamo, dandoci appuntamento per il futuro. Tornando a casa, mettendo mano alle tante cose che mi ha raccontato, non posso non pensare a quella che in Shining chiamavano “luccicanza”. Gli occhi di Carmelo ne erano pieni, sintomo di una passione grande e sincera, che un giovane autore come lui non ha timore a mostrare. Una qualità, questa, per certi versi anche rara. L’augurio più grande che il nostro cinema possa farsi, è trovare persone come lui: vogliose di imparare, mettersi in gioco, magari anche sbagliare, ma crescere, allargare le prospettive, raccontare il paese attraverso la Settima Arte. Ad Maiora, Carmelo!

Carmelo Segreto

Carmelo Segreto                                  Carmelo Segreto

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