Nell’universo de Il Signore degli Anelli, Gollum è senza dubbio il personaggio più affascinante, non tanto per la sua singolarità quanto per l’eterno dualismo inconscio che si articola con Sméagol, la parte buona della sua personalità. Prima di Bilbo, fu il proprietario dell’Anello, e verso l’oggetto sviluppò una perversa dipendenza che gli corrose l’anima.
Essere infido e crudele, Sméagol s’impossessò dell’Anello dopo aver ucciso il suo amico Déagol, che gli contendeva quel tesoro tanto desiderato. Fu da quel momento in poi che Gollum iniziò a radicarsi e a prevalere sulla bontà, in quanto unico amico nella solitudine dell’esilio che fu la sua pena.
Il sole, la natura, gli elfi e la bellezza: tutto ciò gli ripugnava profondamente, e l’Anello lo richiamava sempre alle umide grotte dei Monti nebbiosi, dove la sua ossessione si consolidava secolo dopo secolo.
Quando l’Anello decise di sottrarsi alla sua proprietà e dopo la celebre gara degli indovinelli con Bilbo, Gollum non potè che identificare negli Hobbit i ladri che gli avevano rubato il suo tesoro, iniziando la sua meschina caccia all’oggetto magico.
La Compagnia dell’Anello si ferma a Moria e lì Gandalf confessa a Frodo le mortifere intenzioni della creatura, ma lo stregone mette lo Hobbit in guardia e gli impone di essere meno drastico nei giudizi, perché il vecchio portatore potrebbe ancora avere un ruolo importante nella storia.
Il ritorno alla condizione ideale: Gollum e la fusione con l’Anello
Gollum/Smeagol: «I ladri. I ladri. Quegli sporchi piccoli ladri. Dov’è? Dov’è? Ce l’hanno tolto, rubato. Il mio tesoro. Maledetti! Noi li odiamo! È nostro e lo vogliamo».
Quando fa la sua prima apparizione nel secondo film de Il Signore degli Anelli, Gollum non fa che ripetere questo mantra come un’ossessione che alimenta la sua voglia di vendetta e la sua adorazione per l’Anello.
Raggiunge Frodo e Sam quando i due sono disorientati e in cerca della strada per Mordor, ma la capacità degli Hobbit di usare la situazione a loro vantaggio spiazza Gollum: la creatura si trova intrappolata e costretta a obbedire ai loro comandi; ciò non fa altro che alimentare il suo odio per “i ladri”.
Quello della sfiducia è un meccanismo psicoanalitico importante che troviamo in Gollum, perché egli passa dalla fusione ideale con l’Anello alla ricerca spasmodica di ristabilire quella fusione, passando dalla continua frustrazione del desiderio che l’assenza dell’oggetto causa. Si tratta di una dialettica comune relativa ai rapporti madre-figlio, che ne Il Signore degli Anelli assume contorni pietosi a causa della forza perversa dell’Anello.
La percezione che abbiamo quando seguiamo le azioni di Gollum è la disperazione più totale: fisiologicamente siamo portati a individuare nella creatura l’assenza di ogni possibilità di redenzione, perché ci sembra che il rancore sia troppo più forte della volontà di stabilire un legame con l’Altro.
Vergogna e non una semplice colpa, disprezzo e non semplice odio, ossessione per la vendetta sono le motivazioni che spingono Gollum: per questo ci sembra difficile seguire il ragionamento di Gandalf, che crede fermamente nella redenzione della corrotta creatura.
Talking cure con la propria anima
Gollum/Smeagol: «Sméagol… Perché piangi, Sméagol?
Uomini crudeli ci fanno male. Il padrone ci ha ingannati!
È naturale. Te l’avevo detto che ingannava. Te l’avevo detto che era falso».
Gli uomini sottovalutano sempre il potere terapeutico della parola e dei legami, e Il Signore degli Anelli è magico anche perché ci ricorda questa cosa importantissima. Non importa quanto sia grave il disturbo dissociativo della personalità di Gollum, quanto il conflitto tra spinte mortifere inconsce e controllo conscio della psiche sia intenso, perché una semplice parola è ciò che è bastato a Frodo per scalfire quella fredda superficie.
Una notte da qualche parte nei pressi del Cancello Nero, Frodo chiama Gollum con il suo vero nome, e Sméagol lentamente inizia a risvegliarsi. È un processo lento e fragile, suscettibile di continui crolli perché già in precedenza la personalità della creatura era stata posta di fronte alla criticità permanente di eventi come la morte o l’esilio.
Tempo dopo, il travaglio dialettico tra Gollum e Sméagol si esplicita in una delle scene più intense di tutta la trilogia: quel botta e risposta tra l’Io e l’Es freudiani che articola uno scambio violento e uno strappo drastico. Il vecchio portatore sembra essere arrivato a integrare le parti brutte del Sé in quelle belle che il rapporto con Frodo e Sam stimola giorno per giorno.
I due hobbit stabiliscono una complicità genuina con la creatura, e nonostante lo scetticismo di Sam, il potere terapeutico di Frodo sta nella sua capacità di sorridere e nella gentilezza con cui si rivolge a Sméagol. L’equilibrio che si installa è tuttavia fragile, e basta davvero poco per spezzarlo: l’intervento dell’uomo è sufficiente a distruggere ciò che era stato costruito.
Per riattivare la pulsione di morte di Gollum è bastato un tradimento ad opera degli uomini di Gondor guidati da Faramir, che individuano nei viaggiatori una minaccia per Osgiliath e il loro regno. Niente può essere più potente di una delusione quando la fiducia è appena stata riconquistata, e questo è proprio il motivo per cui Gollum torna a sopraffare Sméagol.
Il ritorno di Gollum: l’eterno dualismo tra Morte e Vita
Gollum/Smeagol: «Sìììì! Sìììì! Tesssoro!».
Da questo momento in poi e per tutto il terzo film, Il Signore degli Anelli trasforma la storia di Frodo e Sam in una sorta di thriller psicologico nel quale sopravvivere a Gollum significa sopravvivere a quelle proprie parti di Sé che minacciano di avere la meglio sulla bontà.
Perché Sméagol non aveva propriamente integrato Gollum dentro di sé, ma si era limitato a reprimerlo, e stimolazioni traumatiche come quella di Faramir hanno consentito al male di riemergere. Ed ecco che quindi Shelob, l’allontanamento di Sam e più avanti l’arrivo al Monte Fato assumono senso per i due Hobbit solo in ragione del ruolo assunto dalla creatura.
La profezia di Gandalf si avvera perché effettivamente è vero che Sméagol aveva ancora un ruolo da giocare come guida, ma soprattutto perché quando tutto finisce egli rappresenta per Sam, e soprattutto per Frodo, un monito rispetto alla necessità di contattare intime parti mortifere di sé al fine di evitare di intraprendere lo stesso sentiero di Gollum.
Siamo impietositi e spaventati di fronte alla piega che gli eventi prendono quando l’Anello compie il suo ultimo tentativo di mettere tutti l’uno contro l’altro e creare una lotta di potere; Frodo, Sam e Gollum mostrano in maniera amplificata dinamiche tra Io, Super-Io ed Es che agiscono in noi continuamente e che in alcuni momenti portano dei cedimenti.
Quindi apprezziamo il trauma che Il Signore degli Anelli ci impone perché tramite il dualismo Sméagol-Gollum costringe noi stessi a contattare il nostro intimo dualismo tra vita e morte, in un’opera culturale d’intelligibilità sul reale che non ha mai fine.