Ci siamo tutti noi, nelle sagge e devastanti affermazioni del cavallo antropomorfo BoJack Horseman. Il motivo per il quale la serie Netflix ci attira in una spirale esistenzialista tragicomica è il profondo realismo che i pensieri del protagonista trasmettono. Iniziare a guardarla è una scelta per certi versi comoda e per altri rischiosa; è comoda, perché i brevi episodi e la grafica animata consentono di prenderla alla leggera, diversamente da altre serie cult che richiedono una concentrazione elevata per seguire la trama; rischiosa, perché i 20 minuti di ogni episodio condensano tematiche così drasticamente diverse tra loro che ogni volta, è inevitabile, si finisce spiazzati.
Il posto di BoJack Horseman nell’Olimpo delle serie tv è stato conquistato proprio grazie alle imprevedibili altalene che emozioni e pensiero compiono, passando dai divertenti siparietti di Todd e Mr Peanutbutter alle riflessioni di Diane e BoJack.
Solo prendendo in riferimento il protagonista, siamo subito in grado di contattare la poesia implicita della dialettica conflittuale che anima il suo spirito, costantemente in bilico tra un maniacale bisogno di godimento e un leopardiano pessimismo cosmico. Se questa montagna russa è possibile, è anche grazie al fatto che il confine psicologico tra pensieri positivi e pensieri negativi è talmente labile da sfumare ogni percezione nel relativismo di cui la sensibilità di ogni soggettività è portatrice.
I due piani dell’ambivalenza: dubito, ergo sum
Sai, col talento che mi ritrovo per inventare piani e la tua abilità per ascoltarli senza contribuire con più di tre parole alla volta facciamo proprio un’ottima squadra.
A volte sento come se fossi nato con una perdita e ogni cosa buona che ho iniziato fosse gocciolata via lentamente da me e ora non c’è più e non tornerà più dentro di me. Troppo tardi. La vita è una serie di porte chiuse.
Parole, sguardi e comportamenti fuori dal normale s’intrecciano in tutti gli episodi della serie: gli spettatori sono naturalmente indirizzati sui binari della serietà solo quando è troppo tardi per tornare indietro e il momento comico si è esaurito; così come il tempo degli episodi scivola via, quello dei personaggi nella serie segue lo stesso movimento.
Poiché l’unico modo per ricercare la felicità e il senso della vita è tenersi occupati con attività il cui senso va individuato nell’hic et nunc, il primo insegnamento della serie sta nel fatto che la sopravvivenza è la base della vita. Le emozioni guidano il pensiero, muovendo le prospettive dei protagonisti tra la solitudine in cui versano e il loro rapporto con gli altri, producendo in ogni momento una dinamica ambivalente sue due piani, quello interno tra ottimismo e pessimismo e quello esterno tra altruismo ed egoismo.
Ciò che è affascinante è il fatto che ciascuno di noi dubita per un dilemma simile ogni giorno della sua vita: in quante occasioni ci capita di osservare la stessa situazione dal punto di vista positivo poco dopo essere stati attraversati dai più oscuri pensieri depressivi e paranoici?
Identità, amore, lavoro, autostima e benessere sono questioni con le quali non solo BoJack si confronta, ma anche noi; poiché viviamo in una società in cui salute e benessere sono convenzionalmente individuate come la norma, quando non ci sentiamo bene ci sembra di essere fuori posto; la verità, tuttavia, è che l’ambivalenza che ci porta a dubitare è preziosa, perché salute e benessere non sono traguardi davvero raggiungibili, ad essi si può soltanto tendere.
Un mondo in cui siamo gettati: la nostra condizione
Non sono interessato alla rinascita, grazie. Mi sto ancora riprendendo dalla prima nascita.
L’heideggeriano Dasein (l’Esserci) è il concetto filosofico che mi è venuto in mente riflettendo su questa citazione della terza stagione dello show; se un’altra verità sul rapporto tra l’ottimismo e il pessimismo del cavallo esiste, questa riguarda la condizione di passiva, inerme impotenza nella quale spesso si trova e che risale alla nascita.
Anche in questo caso, si tratta di una posizione psicosomatica inevitabile per tutti noi: non importa quanto possiamo sentirci in controllo della nostra vita, delle relazioni e dei fattori che ogni giorno ci lanciano sfide nuove, perché la quota di caos imprevedibile e incontrollabile nella quale siamo immersi sarà sempre più grande di noi.
Si tratta di un insegnamento comune a BoJack Horseman come ad altre opere cinematografiche, una su tutte la trilogia del Cavaliere Oscuro di Nolan. Ci contatta perché, per dirla con Hannah Arendt, ci porta a soffermarci non tanto sulla natura della nostra esistenza quanto sulla condizione in cui essa versa: natalità, vitalità e mortalità piuttosto che nascita, vita e morte.
Siamo in balìa di noi stessi e del mondo, e convivere con questa verità psichica è, come c’insegnano BoJack e i suoi amici, l’unico modo per “tirare avanti”; che poi talvolta l’approccio alle contingenze possa essere positivo piuttosto che negativo, ciò è relativo alla sensibilità del momento. Un interrogativo sorge a questo punto: se questa passiva condizione d’inermità è così importante, ciò è legato alle origini di ciascuno di noi. Quali sono, dunque, e in che modo influenzano il nostro sentire positivo o negativo del mondo?
BoJack e il fantasma materno: traumi, emozioni, parole
Beatrice Horseman era nata nel 1938, ed è morta nel 2018, e io non ho idea di cosa volesse. A meno che non volesse ciò che vogliamo tutti: essere vista.
Scegliere un episodio in particolare di BoJack Horseman che mi ha colpito più di altri è difficile, se non impossibile; le tematiche e le scene mostrate in ognuno stimolano corde diverse della mia sensibilità, tutte ugualmente importanti.
Ma oggettivamente il funerale della madre di BoJack rappresenta un turning point decisivo per l’intera serie; al momento dell’eulogia, il protagonista si sfoga riguardi alla sua infanzia, alla relazione con la genitrice e il modo in cui ha influenzato il suo futuro.
Vedere ed essere visti, riconoscere ed essere riconosciuti: in queste semplici manifestazioni d’affetto possono essere sintetizzati i bisogni che BoJack, come qualsiasi altro figlio, aveva rivolto alla madre e che per gran parte della sua vita non erano stati soddisfatti.
Intere teorie di psicologia dello sviluppo e psicoanalisi si fondano sull’importanza del contatto tra la madre e il neonato come fondamento dell’identità: la danza relazionale di Stern, l’attaccamento per Bowlby, le tre funzioni della madre sufficientemente buona per Winnicott. Il punto comune di tutti questi concetti sta nel riconoscimento dell’asimmetria funzionale tra le due figure.
Siamo generati biologicamente e psicologicamente dal modo in cui, a livello conscio e inconscio, le funzioni materne e successivamente paterne, dei pari e del mondo circostante influenzano il nostro processo d’integrazione. Nel caso di BoJack, impossibile sarebbe formulare una valutazione o una diagnosi di personalità, perché il personaggio è sin troppo tridimensionale.
Quello che è certo, dunque, è che la profondità di questa serie può farci raggiungere vette riflessive senza precedenti, che ci portano a chiederci addirittura se abbia senso scrivere un articolo come questo. La risposta non esiste, ma nel frattempo l’abbiamo fatto, e speriamo che in qualche modo possa stimolare una forma d’introspezione, un po’ come BoJack stesso ha fatto con noi.