“A gente comm’a nuje song’ condannati a rimanere suli ncopp’a sta terra.”
Mi ricordo in mezzo a quella platea ghermita, fine primavera 2016 o 2017, non ricordo con esattezzaì. Il caldo afoso di Catania che non dona pace, e lì davanti Marco d’Amore, gentile e disponibile con tutti e ad ogni domanda, con un acume e una sagacia privi di snobismo o accondiscendenza. Dava l’impressione di non porsi su un piano superiore al pubblico, ma questo non lo privasse della licenza allo stimolo, alla curiosità, ad offrirgli una prospettiva priva di filtri, contrastandolo talvolta.
Si intuisce subito quando, ai tanti epiteti mossi dalla platea (“merda, fango, infame, traditore” più che condivisibili anche), lui ponesse sempre un accenno, senza perdono né giustificazione, al non vedere le persone scolpite con l’accetta, come si vede nei film Marvel. Ciro è molte cose, ma definirlo malvagio era quantomeno semplicistico.
E’ lo stesso stimolo che mi spinse a fare la mia domanda, esordendo con i miei “Salve e Lei” divenuti ormai obsoleti e quasi pedanti ma per me imprescindibili, abituato come sono a dare il Lei anche a mia madre. Il Voi, diremmo in Sicilia.
Volevo sapere se davvero in questo personaggio ci fosse quella componente tragica che avevo sempre individuato; componente che si spreca in Gomorra, ma in Ciro più di tutti.
Se ci fosse, nascosto tra le sue pieghe, qualche gioco dei rimandi, quelle sorte di passatempi collezionistici, quasi delle disposizioni anali intellettualoidi le avrebbe definite qualcuno. Lui mi disse Iago, io ero d’accordo, pur vedendoci molto più Riccardo III o Macbeth – e, a posteriori, realizzai che Ciro possedesse l’acume di Iago, la ferocia di Riccardo III e la sventura di Macbeth.
Vedendo L’Immortale, mi rendo conto tuttavia che Ciro non sarà mai nessuno di questi personaggi. Non del tutto almeno.
La sua condanna, la sua dannazione è eterna, va oltre la morte. Doomed to live in fondo, il suo tema, il tema della serie: condannato a vivere, pur essendo morto dentro.
“O terremoto è vuler’i Dio”, intuiamo subito la figura cristologica che Ciro rappresenta in questa tragica epopea gangster sin dalle prime scene del sisma dell’Irpinia, come se quello stesso Dio avesse voluto che fosse lui l’Immortale, l’unico destinato a resistere al terremoto della vita. L’unico condannato a restarle ancorato con ogni mezzo, anche quando sembra non avere più nulla da offrirle, anche se lo sta ormai svuotando di ogni cosa, pezzo a pezzo.
Il doppio snodo in cui si dipana la storia sembra a primo impatto non essere privo di difetti nella tenuta della tensione, nella credibilità della messa in scena con un Ciro sempre più John Wick e Invincibile più che immortale, ma a mente fredda si realizza che ormai ogni cenno di quel realismo dominante della prima stagione è ormai divenuto nulla più che un ricordo, nel bene o nel male: Ciro è ormai totalmente un personaggio da fumetto, da opera di finzione, senza che tuttavia ciò faccia perdere dignità né spessore alle sue vicende.
È indubbio che la trama presente sulle sponde del mar Baltico non abbia un mordente degno di ciò a cui L’Immortale ci ha abituato, come si accennava. Tuttavia, ogni punto perso viene riconquistato nei lunghi flashback provenienti dall’infanzia, di un mondo dai colori più caldi e solari, di scugnizzi che si aggirano sfrecciando tra i rioni tra piccoli furti e contrabbando di sigarette, tra una vita dal piede leggero che è ancora un rischio senza esperienza e ancora colma di un’ingenua speranza nell’avvenire, rubata e poi tradita dalla crudeltà del mondo, dall’avidità dell’uomo.
Capiamo solo allora come, da quelle ceneri, nasca il vero Immortale, che si aggira ancora bambino con lo sguardo torvo e malfidente verso tutti. Ormai i colori caldi della fotografia hanno lasciato posto a tinte fredde e grigie, e in quella catabasi ha inizio l’epopea di Gomorra, l’epopea dell’Immortale. Una risoluzione a cui ogni spettatore era preparato, ma non per questo perde la sua potenza evocativa, in quella marcia tra i palazzi di Scampia insieme al suo mentore Attilio, in quell’ultima, inevitabile discesa verso quel mondo dove solo gli spietati sopravvivono, dove si può scegliere solamente in quale ordine abbandonare la propria vita.