Se potessi portare con te un solo oggetto su un’isola deserta, che cosa porteresti? Dammi una risposta e ti dirò chi sei. Quante volte abbiamo sentito un test come questo. Il ventaglio di tutte le risposte possibili può dividersi sommariamente in due categorie: possiamo scegliere un oggetto in base alla sua utilità, qualcosa che possa aiutarci a sopravvivere, oppure in base al legame che abbiamo con esso, qualcosa che sentiamo ci rappresenti intimamente.
Anche se non si trovano su un isola deserta, ma in una prigione dalla gerarchia piramidale, anche a Goreng e al suo compagno di cella Trimagasi è stato concesso di portare un solo oggetto dentro al Buco. Trimagasi ha scelto un coltello da cucina particolarmente affilato. Goreng un libro, Don Chisciotte della Mancia.
Una delle prime frasi con cui Trimagasi accoglie Goreng nella cella è: «questo non è un posto per un amante dei libri». Si riferisce al Buco, oppure al mondo?
Il coltello Samurai Max/Plus di Trimagasi è la metafora perfetta del consumismo. Trimagasi vede in tv la pubblicità di un arrotino che vende il Samurai/Max, un coltello capace di tagliare persino un mattone. Lui che non ha mai pelato un pomodoro in vita sua e il pane lo compra tagliato a fette, si lascia sedurre dalla promessa di un domani scintillante: e se la mia vita fosse migliore se avessi dei coltelli più affilati? Lo compra. Lo spot successivo pubblicizza il Samurai-Plus, il coltello che resta affilato anche dopo aver tagliato un mattone. La morale della favola? Sono i dettagli che fanno la differenza.
Queste sono le regole del mondo governato dal consumismo, che entrambi conoscono bene. Ma a differenza di Goreng, Trimagasi conosce alla perfezione anche quelle del Buco. I reclusi sono suddivisi su piani verticali identici fra loro che vengono sorteggiati ogni mese. La posizione è l’unica cosa che differenzia un piano dall’altro. Ma è anche l’unica cosa che fa la differenza fra la vita e la morte. Una volta al giorno una piattaforma rettangolare che ospita una tavola riccamente imbandita discende lungo tutta la torre, fermandosi a ogni piano per pochi minuti. Chi è più in alto mangia per primo; chi si trova a metà deve accontentarsi dei suoi avanzi; chi è più in basso resta a digiuno.
Per questo l’altezza del piano è tutto: un singolo numero può fare la differenza fra la vita e la morte.
Goreng al suo ingresso nel Buco sembra un bambino ingenuo accompagnato per mano dalla madre al primo giorno di scuola, mentre Trimagasi è uno scafato ripetente dell’ultimo banco. La sua lunga esperienza nel Buco gli ha insegnato che lo stesso compagno di cella può essere un amico con cui conversare e da cui farsi leggere una storia ai piani più alti, ma può diventare un pericoloso rivale ai piani inferiori, dove il cibo non è sufficiente per entrambi. Infine, agli ultimi livelli, il suo corpo può rappresentare una risorsa preziosa per sfuggire alla morte per inedia. Per questo ha scelto di portare un coltello, l’arma più funzionale che ci sia: una pistola può sparare solo 6 volte, e non serve a tagliare a pezzi i corpi da mangiare.
Vale la pena notare che non c’è alcuna malvagità gratuita in Trimagasi e nella sua mancanza di scrupoli. In un mondo che ruota attorno al paradigma della mors tua vita mea, lui è semplicemente uno che si è adattato alle regole del gioco: mette la sua sopravvivenza al primo posto e ha fatto della Realpolitik l’unico valore assoluto.
Goreng è diverso da lui quanto Don Chisciotte lo è dallo scudiero Sancio Panza. Proprio come “El Ingenioso Hidalgo” di Cervantes, anche lui è malato di una malattia incurabile, che gli impedisce di accettare le storture del mondo rifugiandolo nel sogno. Goreng è condannato a continuare a immaginare un mondo diverso. Il malanno che lo affligge, si chiama utopia.
Il coefficiente di successo di un film distopico – e non solo – si basa su un semplice fattore: quanto sia in grado di rispecchiare fedelmente il mondo in cui viviamo. Secondo i canoni delle sceneggiature hollywoodiane questa qualità impalpabile di una storia viene definita come Zeitgeist, lo Spirito del Tempo. Un film riesce a cogliere lo Zeitgeist quando il suo racconto tocca un nervo scoperto del mondo in cui viviamo. È qualcosa che si percepisce visceralmente ancora prima di razionalizzarla. Chiunque abbia visto Il Buco sa di trovarsi di fronte a un esempio perfetto di questo fenomeno.
Il motivo per cui questa pellicola ha suscitato molto clamore è la sua capacità di esprimere qualcosa di vero, vivo e vibrante. Perché?
Il mangiare, atto estremamente elementare eppure fortemente simbolico, in questo film rappresenta per sineddoche il consumo delle risorse in generale. Il tavolo imbandito si ferma a tutti i piani ed è disponibile a tutti sulla carta: la sua esistenza è di per sé democratica. A non esserlo è il modo in cui le pietanze vengono distribuite. Come viene detto chiaramente, se tutti mangiassero la propria parte, ci sarebbe cibo a sufficienza per tutti. Ma nel Buco accade il contrario: chi sta in cima – una percentuale minima rispetto ai detenuti di tutti i piani – consuma quasi la totalità del cibo che viene preparato. Pochi consumano tutto, e i molti restano con niente.
Nel nostro mondo non accade niente di diverso. Negli Stati Uniti esiste il cosiddetto problema dell’1%: questa percentuale minima dei più facoltosi possiede quasi la metà di tutta la ricchezza nazionale.
Questo dato vale per le società occidentali al loro interno, ma può essere letto anche per le società occidentali nel loro complesso rispetto al resto del mondo. In entrambi i casi, si tratta di un modello insostenibile e destinato al collasso.
Che ne è stato di Libertà, Uguaglianza e Fraternità? I fallimenti collegati dell’economia e della politica, il neoliberismo che ha sciolto il capitale da ogni catena e le ripercussioni della volatilizzazione della finanza degli ultimi decenni hanno progressivamente fatto tramontare ogni idea di collettività acuendo la disuguaglianza della società. Degli ideali rivoluzionari, ci è rimasta solo la Libertà.
«TUTTO CIÒ CHE È SOLIDO SI DISSOLVE NELL’ARIA, TUTTO CIÒ CHE È SACRO VIENE PROFANATO, E L’UOMO È INFINE COSTRETTO AD AFFRONTARE CON LUCIDITÀ LE REALI CONDIZIONI DELLA SUA VITA E LE SUE RELAZIONI CON I SUOI SIMILI».
(KARL MARX E FRIEDRICH ENGELS – “IL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA”)
Così scrivevano Marx ed Engels nel 1848 mentre la crisi politica e la febbre rivoluzionaria imperversavano in tutta Europa. Il sociologo americano Marshall Berman ha teorizzato questo senso di spaesamento dovuto alla vertiginosa accelerazione di un mondo sempre in procinto di rinnovare se stesso al prezzo di distruggere se stesso come l’esperienza caratteristica della modernità.
Le crisi cicliche del capitalismo non fanno che accelerare il trend insito nella natura stessa del sistema economico. Il capitale tende ad accumularsi e la forbice della disuguaglianza sociale ad allargarsi: chi è ricco diventa sempre più ricco, chi è povero sempre più povero.
La disuguaglianza della società cresce esponenzialmente e in modo inarrestabile. La classe media borghese, cardine del sistema democratico, sprofonda nel buco come i piatti vuoti rimasti sul tavolo. Di mese in mese si risveglia a un livello più basso, un po’ più vicina alla miseria e un po’ più disperata nel lottare per la sopravvivenza. Negli ultimi decenni la discesa è stata costante; ma è graduale e per questo fatichiamo a metterla a fuoco. Si dice che una rana immersa in una pentola di acqua calda non si accorge di bollire se la temperatura si alza poco alla volta.
Secondo un rapporto della Fed del maggio 2019, il 40% degli statunitensi non poteva sostenere una spesa di emergenza di 400 dollari senza prendere in prestito denaro. Dubitiamo fortemente che la situazione sia migliorata nel frattempo. Siamo a un passo dal baratro, ma continuiamo a guardare dall’altra parte.
Siamo abituati a pensare la solidarietà come un concetto orizzontale, qualcosa che si scambia fra pari. Ma i tempi che corrono richiedono una solidarietà verticale: chi è in alto deve prendersi cura di chi sta più in basso. In questi tempi di Coronavirus molte donazioni di ricchi imprenditori agli ospedali sono state un buon esempio. Ma il paradosso resta: una singola persona ha la facoltà di fare quello che le moltitudini non possono.
Nel buco c’è di tutto. Ci sono uomini come cani che si avventano sugli ossi che gli vengono lanciati. C’è chi sputa a chi gli sta in basso, e chi prova instancabilmente a risalire. C’è chi si pente delle sue azioni, di cui non conosceva le conseguenze, e chi muore come un animale, fedele a se stesso e ai suoi istinti più bassi. E chi invece fedele alla parte umana più elevata non smette di cercare risposte diverse.
Dopo aver compreso il funzionamento del buco, Goreng a differenza di Trimagasi non si accontenta di accettare passivamente le sue leggi, ma si chiede come sia possibile rivoluzionare il sistema rendendolo più equo e assicurandosi che ognuno abbia la sua parte. Se ognuno mangiasse solo la razione necessaria al suo sostentamento, tutti potrebbero sopravvivere. Ma per fare questo le persone di tutti i piani dovrebbero mettersi d’accordo e chi sta in alto rinunciare ai suoi privilegi.
È una risposta possibile o solo un sogno irrealizzabile? La solidarietà può nascere spontaneamente, o c’è bisogno di una forza coercitiva o di una rivoluzione sanguinosa per convincere le persone a ubbidire?
La natura ci mostra gli esempi di molti animali che si organizzano spontaneamente nel modo più razionale possibile, mettendo la sopravvivenza della specie più in alto della soddisfazione dei bisogni del singolo individuo. Ma noi non siamo come le api. A noi è dato il libero arbitrio, con tutto il peso e la responsabilità che ne derivano.
Questo film ricorda sotto molti aspetti Snowpiercer di Bong John-ho, il regista di Parasite. Diversi film degli ultimi anni affrontano il tema della disuguaglianza sociale – penso anche a Joker solo per fare un esempio ma la lista potrebbe allungarsi.
Il cinema sta cercando di dirci qualcosa. Forse dovremmo iniziare ad ascoltarlo.
Nel dare risposte Il Buco è meno convincente che nel sollevare domande. Ma forse è giusto così se è vero che il compito primario dell’arte non è quello di dare risposte, ma di porre le domande giuste. Anche se nella modernità ha perso la sua aureola e la sua dimensione sacrale, l’arte non ha perso la sua capacità di mettere in questione il reale e di aprire finestre sul possibile.
È per questo che ne abbiamo ancora così disperatamente bisogno. Abbiamo bisogno di Goreng e di Don Quixote, di ascoltare quella parte di noi che continua a immaginare un futuro diverso. I Trimagasi e i Sancho Pancha cercheranno di metterla a tacere dicendo che è solo un’utopia. E ben venga; perché l’utopia non è qualcosa di opposto alla realtà. È solo il primo passo per cambiarla.
«LEI È ALL’ORIZZONTE. MI AVVICINO DI DUE PASSI, LEI SI ALLONTANA DI DUE PASSI. CAMMINO PER DIECI PASSI E L’ORIZZONTE SI SPOSTA DI DIECI PASSI PIÙ IN LÀ. PER QUANTO IO CAMMINI, NON LA RAGGIUNGERÒ MAI. A COSA SERVE L’UTOPIA? SERVE PROPRIO A QUESTO: A CAMMINARE».
(Fernardo BIRRI e Eduardo GALEANO)