La famiglia è quel nucleo sociale che, sin dalla nascita, definisce e influenza, in modo quasi irreversibile, l’esistenza e l’identità di ogni individuo. Nel corso del tempo questo tema si è rinnovato costantemente e ha attraversato ogni genere di produzione umana, dalla letteratura al cinema. A testimonianza di ciò, prenderemo in esame lo diverse sfumature di questo topos presenti nel film d’animazione, Maquia di Mari Okada e nel celebre romanzo di Cesare Pavese, La luna e i falò.
Maquia: la stirpe della separazione
Sin dai primi minuti della pellicola la condizione di orfana della giovane protagonista Maquia pone lo spettatore davanti a una ricerca costante di punti di riferimento. Inizialmente, infatti, Maquia sembra aver trovato il suo posto nel mondo all’interno della sua comunità immortale. Il suo ruolo, di fatto, risulta ben definito e non immagina di essere proiettata in nessun altro tipo di condizione.
Il punto di svolta si verifica, però, quando Maquia si risveglia lontano dal suo mondo abituale. A causa di un attacco al suo villaggio, la protagonista si ritrova a scappare per non morire e, quasi accidentalmente, arriva a prendere un neonato dalla madre deceduta in un agguato.
È questo l’incontro che, senza ombra di dubbio, cambia radicalmente il rapporto di Maquia con tutto ciò che la circonda.
Inizia, allora, a sentirsi responsabile della vita del piccolo Ariel, a prendere decisioni in base alla sua felicità e a fare i conti anche con i problemi che derivano dalla diversità della sua comunità. La parabola di Maquia rappresenta il tentativo di Okada di decostruire e reinventare il ruolo del genitore, attraverso la sua essenza primordiale.
Il rapporto di Maquia e Ariel è infatti caratterizzato inizialmente da un affetto forte, testimoniato dalla presenza continua di Maquia nella vita del figlio e, successivamente, invece da un distacco emotivo di Ariel con la scoperta della vera natura della madre adottiva.
Tutto ciò porta Maquia alla comprensione di ciò che sia davvero necessario per Ariel, alla consapevolezza che la sua immortalità rappresenta realmente un forte ostacolo per il loro rapporto e, forse, alla realizzazione del fatto che nel futuro del figlio lei potrebbe essere solo un dolce ricordo.
L’episodio finale del loro ultimo incontro è la rappresentazione dell’amore di una madre, con tutto il dolore che, a volte, ne consegue.
Molti anni dopo, infatti, con Ariel sull’orlo della morte e dalla vecchiaia, Maquia lo visita per dargli l’ultimo saluto, piangendo e scusandosi per aver infranto la promessa di non versare più lacrime e di non essere più triste.
Non è un caso che la vicenda della protagonista si intrecci con quella di Leilia, una giovane del popolo Iorph scelta dal Re per continuare la linea di sangue attraverso la sua longevità. Il sogno reale tuttavia si infrange miseramente perché la piccola Medmel non mostra nessun segno del popolo Iorph.
Maquia e Leila
Leila allora cade nella più totale disperazione: sente di non essere più utile, di non avere uno scopo, di aver fallito e, come se non bastasse, le viene addirittura negato di vedere e vivere sua figlia.
Anche Leila però, come Maquia, nel momento in cui rivede Medmel capisce che l’unico modo per evitare la sua sofferenza è allontanarsi, essere quasi dimenticata, affinché l’amaro ricordo di quell’assenza lasci spazio all’amore del futuro.
La nostalgia di Pavese
La luna e i falò è uno dei romanzi più famosi di Cesare Pavese, scritto nel 1949 e pubblicato nel 1950. La vicenda è raccontata in prima persona dal quarantenne Anguilla, che torna nelle Langhe, sua terra d’origine, dopo essere emigrato in America da molti anni.
Il protagonista è un orfano: adottato da una famiglia di contadini che abita alla cascina della Gaminella, presso Santo Stefano Belbo, a tredici anni, morto il padre adottivo, Anguilla si trasferisce per lavorare alla cascina della Mora, dove stringe amicizia con Silvia, Irene e la bella Santina, figlie del padrone.
La vena intima dell’autore emerge nel momento in cui Anguilla si interroga sulle sue origini e sull’esistenza di un legame con il suo passato:
«Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere” […] chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione».
Il passaggio però che lega Maquia ad Anguilla è sicuramente la volontà di quest’ultimo di aiutare Cinto, il figlio zoppo di Valino. Pavese riflette in questo personaggio la condizione esistenziale dell’orfano Anguilla, rievocando e rivivendo con grande nostalgia gli anni della propria infanzia e adolescenza.
Il protagonista, desiderando di essere una sorta di padre, trascorre con lui in modo piacevole molto tempo nelle campagne della Langhe, cercando quasi di cambiare il destino di quel giovane uomo così da poter cambiare anche il proprio. In realtà, la sua crisi d’identità non trova pace nella sua terra d’origine ma, come probabilmente ha sempre saputo, lo accompagna fino alla fine dei suoi giorni.
Prima di abbandonare definitivamente Santo Stefano Belbo, Anguila affida Cinto a Nuto, suo unico punto di riferimento, chiudendo così quel ciclo d’identificazione esistenziale tra i due personaggi.
Pavese e Okada manifestano in modo completamente diverso e lontano l’impatto emotivo della famiglia, la possibilità di ritrovarsi nel dolore degli altri e l’importanza di essere legati alle proprie origini.
Satoshi Kon, l’illusionista giapponese che ha trasformato l’animazione nella rappresentazione del suo inconscio, è stato di grande ispirazione per i registi occidentali. Qual è il valore che oggi questo processo di appropriazione culturale di Kon ha?
Nella Tuscia degli anni ’70, tra continue discese nei sottosuoli e desideri di riscatto sociale, si scontrano due realtà differenti: il mondo feroce del consumismo e un uomo che vuole vivere soltanto in virtù delle proprie chimere
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