Voldemort – Gli Horcrux e Spinoza

Gianluca Colella

Ottobre 12, 2020

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La filigrana di questo articolo su Voldemort è duplice: in primo luogo sarà ripercorso lo sviluppo psicologico del nemico di Harry Potter attraverso diverse tappe fondamentali, e in secondo luogo la speculazione sarà principalmente di tipo filosofico, sul suo rapporto con se stesso.

È esistito, in un tempo e in uno spazio, un bambino mezzosangue senza particolari doti, per nulla diverso da altri bambini mezzosangue come lui. Un giorno, tuttavia, Voldemort, che fu Tom Riddle, scoprì di avere alcuni doni, che persone più grandi e importanti di lui hanno definito poteri magici, grazie ai quali riusciva a fare cose che gli altri bambini non riuscivano a fare.

E così, gradualmente, Voldemort è diventato una persona, o forse sarebbe meglio dire che una persona è diventata Voldemort? Perché se c’è una cosa particolare del villain di Harry Potter, nato dalla penna di J.K. Rowling, questa è la sua complessa, centrale quota di umana ipocrisia.

Egli è innanzitutto Tom: Voldemort esiste perché esiste quel bambino senza autostima e auto-efficacia che si è sentito un fallimento, che si è annichilito, e che ha sviluppato verso la vita e il mondo un profondo sentimento di disprezzo. Il punto, o meglio lo spoiler scomodo, è che tale sensazione di fallimento la sperimentano tutti: essa fa parte di un fisiologico processo di sviluppo a causa del quale il soggetto che cresce sperimenta la fine della propria onnipotenza rispetto al mondo circostante, se non altro perché sperimenta il limite che separa la propria persona dal contesto.

Il suo trauma, quindi, non è più grande di altri. È lo stesso che abbiamo subito tutti, inermi e passivi, quando il mondo ci ha preso a schiaffi e ci ha detto di svegliarci dal sonno. Nel caso di Tom, tuttavia, il problema era la smisurata ambizione maturata grazie alla scoperta della magia, e la conseguente incapacità di adattarsi adeguatamente alle frustrazioni che il contesto gli imponeva.

Hogwarts: Voldemort e la possibilità affettiva

Quello che Voldemort ricerca, nel dialogo tra Vita e Morte, Bene e Male, non è altro che una frattura intima e spinoziana della sua persona.

Tom Riddle e Silente

Tom Riddle: «Posso spostare gli oggetti senza toccarli, far fare delle cose agli animali senza addestrarli, far capitare brutte cose a quelli cattivi con me, farli soffrire… se voglio… Parlo anche con i serpenti, loro mi trovano, sussurrano cose, è normale? Per uno come me?».

In questo passaggio, tratto dai ricordi del miglior preside di Hogwarts, Silente ci porta a contatto con quel germogliante amor proprio perverso che, crescendo difettosamente nel cuore di Tom Riddle, lo condurrà sempre più verso il Male piuttosto che verso il Bene.

Il punto che il capolavoro della Rowling prova ad affermare, tuttavia, consiste nel fatto che il ruolo di Hogwarts per uno come Tom doveva essere quello della possibilità, intesa come finalità a-finalistica perché aperta a diverse soluzioni, un orientamento all’agire e al pensare che il ragazzo aveva a disposizione per diventare qualcosa che potenzialmente era già: un grande mago saggio, capace di dare un contributo al mondo.

Una teoria di psicologia dello sviluppo può essere utile a portare avanti questa analisi: si tratta della teoria psicosociale di Erikson (1968), che articola per ogni fase della vita un conflitto psicosociale, il quale porta allo stadio successivo solo se si risolve con l’acquisizione positiva di una caratteristica.

Tom Riddle

Senza una madre e un padre, sin dall’infanzia la sfiducia ha prevalso sulla fiducia in Tom, portando come conseguenza la strutturazione di un senso di sé radicalmente fragile, soggetto a scissioni. Il disprezzo alimentato dal contesto circostante ha fato il resto, precludendo totalmente la possibilità di raggiungere un’integrazione sana del suo Io.

Esempi e modelli avrebbero dovuto funzionare per lui alla stregua di fonti in cui dare origine a identificazioni solide e positive, da integrare con la propria indole e con i propri affetti. Tom, purtroppo, è diventato Voldemort perché durante il suo processo di sviluppo questo passaggio l’ha fallito.

Come tutti da piccoli, anche lui ha sfogato la propria aggressività, quella che Erik Erikson ha studiato nel dilemma psicosociale della fase del gioco, la terza. Questa corrisponde a uno stadio dello sviluppo che coinvolge l’età tra i tre e i cinque anni, ed è caratterizzata dalla dicotomia tra iniziativa e senso di colpa: se l’integrazione dell’aggressività col contesto fosse riuscita, Tom avrebbe potuto restare tranquillo e crescere in pace, ma purtroppo cattive sono state le interpretazioni che egli ha dato al proprio senso di colpa, impedendosi la possibilità di accedere a una conoscenza sana dei propri limiti.

Saltando le fasi scolastiche e arrivando all’adolescenza, quella fase della vita in cui Tom ha conosciuto Hogwarts e ha iniziato a diventare Voldemort, il dilemma psicosociale che l’erede di Serpeverde ha fallito è quello tra l’integrazione dell’identità e la diffusione della stessa. Seguendo il seducente richiamo delle Arti Oscure, con i reconditi misteri che così bene si sposavano con le sue ambizioni, Tom ha versato in una condizione di non consapevolezza di quelle possibilità che avrebbe potuto concretizzare se solo avesse inteso il valore che Hogwarts poteva avere per lui.

Gli Horcrux: Voldemort e l’impossibilità etica

Quello che Voldemort ricerca, nel dialogo tra Vita e Morte, Bene e Male, non è altro che una frattura intima e spinoziana della sua persona.

Lord Voldemort

Voldemort: «Non esiste bene e male, esiste solo il potere… E quelli troppo deboli per averlo!».

La diffusione d’identità è psicologicamente allegorica; nel caso di Tom Riddle, tuttavia, si potrebbe speculare sul fatto che ci sia anche un’interpretazione concreta di questa stagnazione psichica. Sebbene dal punto di vista psicopatologico egli sia un villain fondamentalmente noioso rispetto ad altri (in termini squisitamente ipotetici, il suo potrebbe essere un disturbo della condotta adolescenziale che in età adulta sfocia in disturbo antisociale di personalità con tratti di esaltazione di sé e culto della personalità), dal punto di vista filosofico e umano il discorso si fa più interessante, soprattutto se si indagano gli strumenti che egli sceglie per corrompere definitivamente la propria natura, assecondando il conatus che il suo disagio interiore non lo cura, ma lo alimenta.

La parola conatus non è scelta a caso: essa proviene dal corpus filosofico di Benedetto Spinoza, il filosofo spagnolo che si cimentò nell’ardua impresa di dimostrare l’etica more geometrico, tramite assiomi e postulati deduttivi che lasciavano poco spazio alle interpretazioni metafisiche.

Indagando azioni, passioni e affetti dell’uomo, Spinoza provò a delineare le caratteristiche degli attributi della sostanza umana che garantivano all’esistenza un fine soddisfacente. Il presupposto fondamentale per la visione naturalistica di Spinoza consiste nel fatto che l’uomo non vuole il bene, ma è bene ciò che l’uomo vuole (per Sé). Il conatus consiste dunque in questa tendenza della volontà che consente alla sostanza di perseverare nella propria natura, sviluppando la propria potenzialità al di là dell’illusione di un fine ideale al quale tendere.

Sembrerebbe trattarsi di una filosofia materialista, e difatti lo è, ma nello specifico di Voldemort quello che potrebbe interessare per completare quest’analisi è il discorso relativo agli affetti, alla beatitudine e alla tristezza, entrando più nello specifico nella teoretica di Spinoza, e coinvolgendo il suo modo di definire la conoscenza adeguata o inadeguata dell’esistenza umana.

Spinoza

Se il soggetto persegue affetti attivi, ovvero svolge azioni conformi al miglioramento delle proprie condizioni d’esistenza, egli innalza a un gradino più alto il proprio livello di perfettibilità, avvicinandosi alla beatitudine.

Differentemente, se egli agisce secondo affetti passivi, impedendosi le possibilità di operare un miglioramento della propria condizione, si avvicina alla tristezza, e scende a un livello di perfettibilità inferiore.

La complessa ipocrisia umana di Voldemort e di Tom Riddle consiste, quindi, proprio in questa dicotomia etica, da un lato lineare e dall’altro incoerente: da un lato, è lineare perché se Tom è diventato Voldemort è perché quel grado di perversa, malvagia aggressività era intimo alla sua natura, al proprio conatus; dall’altro, a renderlo Voldemort sono stati gli Horcrux, e gli Horcrux possono essere allegoricamente intesi come esiti della tendenza ad assecondare affetti passivi. Dunque Voldemort dalla perfettibilità si è allontanato di sua spontanea volontà, contattando la tristezza e la solitudine piuttosto che la beatitudine.

Concludendo questa polverosa e confusa ricerca psicologica e filosofica sulla natura di un cattivo, pare inevitabile riprendere l’aporetico dualismo tra natura e cultura, tendenze innate e apprese dall’esperienza: se è vero che il Male è nato in Voldemort perché era un tratto di famiglia, è anche vero che è giusto domandarsi cosa sarebbe accaduto se egli avesse avuto la possibilità di crescere in un contesto amorevole e accogliente, capace di orientare il suo conatus verso il riconoscimento di una potenza degli affetti, in grado di garantire un passaggio verso la beatitudine.

Per quanto abbia provato a elevarsi al di sopra del mondo, Voldemort si rivela proprio per queste contraddizioni umano, troppo umano, proprio come tutti noi. Che su noi stessi il lavoro d’integrazione tra Bene e Male, giusto e sbagliato, proviamo a svolgerlo ogni giorno.

Leggi anche: Perché Lord Voldemort è Il Perfetto Cattivo?

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