L’uomo invisibile – Il #MeToo secondo la Blumhouse

Antonio Lamorte

Novembre 2, 2020

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C’è più di un motivo per cui L’uomo invisibile (2020) di Leigh Whannell è stato un film molto discusso. In primis c’è la tecnica, il ritmo estremamente ragionato, la fluidità con cui la narrazione si sviluppa; tutte cose che il buon Whannell ci aveva già ampiamente dimostrato con il suo precedente Upgrade. Poi abbiamo le ottime interpretazioni del cast, a cominciare dalla bravissima Elizabeth Moss, le cui fantastiche doti attoriali ci permettono di empatizzare con lei fin da subito. E infine, ovviamente, abbiamo lo spinoso tema sociale che il film affronta in modo così coraggioso.

Prima di entrare nel merito di tutto ciò, è bene precisare il contesto produttivo nel quale il film è nato. L’opera di Leigh Whannell è infatti targata Blumhouse, celebre casa di produzione fondata dall’eclettico Jason Blum. Si tratta di un ambiente lavorativo specializzato nel cinema di genere, che ha prodotto neo-cult di ottima fattura, come Sinister e Insidious. Con questo L’uomo invisibile, però, si è fatto un ulteriore passo avanti; si è scelto di utilizzare un robusto cinema di genere per parlare di una situazione così delicata e sentita da molti.

L'uomo invisibile

Cecilia Kass (Elizabeth Moss)

Il molestatore invisibile

Elizabeth Moss interpreta Cecilia, una donna che, come molte altre, ha avuto la sfortuna di incontrare il peggior uomo possibile; il compagno, Andrew, è un uomo violento, autoritario, che si arroga il diritto di prendere decisioni quali cosa debba indossare la sua partner, quali persone lei possa vedere e quali no. Prima che la situazione possa degenerare, Cecilia scappa, scatenando le furie di quell’uomo che, più che un compagno, aveva assunto le sembianze di un carceriere.

Tuttavia la libertà di Cecilia dura pochissimo. Strani avvenimenti cominciano ad accadere intorno a lei. Piccoli incidenti domestici, apparentemente insignificanti, assumono connotazioni via via sempre più inquietanti man mano che la sensazione di essere costantemente spiati prende piede.

Andando avanti la situazione peggiora ulteriormente. Ora cominciano a verificarsi eventi la cui colpa viene attribuita a Cecilia. Lei comincia a essere allontanata dagli stessi che fino a quel momento si erano presi cura di lei. Di colpo si ritrova sola di nuovo, e sente che il suo ex potrebbe essere invischiato in tutto ciò. Ancora una volta lui torna a essere il padrone della vita di Cecilia. È riuscito a isolarla in modo subdolo e meschino, le ha inoculato l’idea che lui è sempre presente, in ogni momento e in ogni luogo.

In pratica è riuscito di nuovo a entrare nella sua testa, a condizionare il suo modo di pensare, a brutalizzare la sua esistenza.

Cecilia che scappa dal suo compagno (Oliver Jackson-Cohen)

Uno dei tanti pregi de L’uomo invisibile è che non scende a compromessi. Alla luce di tutto ciò, noi sentiamo la disperazione di Cecilia, che simboleggia anche le milioni di donne che purtroppo vivono queste situazioni. Cecilia esprime con veemenza i suoi dubbi e le sue paure, ma nessuno la ascolta e quindi anche le persone a lei più vicine si rendono, volenti o nolenti, complici di tale tortura psicologica. Pur essendo un film di genere, e pur utilizzando un espediente fantascientifico come una tuta invisibile, l’opera restituisce un quadro estremamente realistico. La figura del “molestatore”, che abusa della mente e del corpo, diventa per le vittime un uomo invisibile che può celarsi ovunque, uno spettro che si aggirerà per sempre nei pensieri di chi ha subito tutto questo male.

L’uomo invisibile e il femminismo

L’uomo invisibile è un film femminista, e lo è nel modo più sincero possibile. L’opera infatti non si perde in un’estremizzazione dannosa dei concetti, ma anzi mostra con fredda lucidità un orribile inferno emotivo che, purtroppo, non rimane confinato solamente all’interno della finzione scenica. A questo seguono poi delle doverose riflessioni sulle azioni dei singoli personaggi; riflessioni che devono essere attentamente ponderate per evitare di scadere nella banalità, che per un tema come questo è inaccettabile.

Il film di Leigh Whannell per fortuna non inciampa in nessuna di quelle minacciose banalità, che rischiano di affossare un discorso potenzialmente interessante. Come prima cosa Whannell non trasforma il tutto in una battaglia dei sessi e, come conseguenza a ciò, non si schiera da nessuna parte. Questo è molto interessante, nonché molto giusto, poiché in situazioni come queste, nella fattispecie una persona perseguitata da un’altra, non esistono schieramenti.

Non c’è dialettica tra vittima e carnefice, la questione banale del “da che parte stai?” non dovrebbe proprio porsi.

Cecilia in una scena del film

Tutto questo viene abilmente evitato dal film, che si concentra molto di più sull’azione in sé, accantonando perfino le motivazioni che portano l’ex compagno invisibile a stalkerizzare Cecilia. Anche in questo caso, è una scelta vincente. Giunti a questo punto, non è importante se in passato lei si sia comportata in modo tale da far diventare il compagno geloso; il fatto che lui la manipoli in modo così brutale è da condannare a priori, anche se lei, ipoteticamente, si è comportata in modo disonesto.

Viviamo nell’epoca del #MeToo, un’epoca in cui, dopo aver minimizzato il problema della violenza (a sfondo sessuale e non solo) per troppi anni, si è deciso finalmente di reagire. Da questo movimento sono nate tante cose; rivincite sociali, ma anche, purtroppo, qualche paradosso. Tuttavia non è questo l’articolo in cui si parla nello specifico del #MeToo, questo è l’articolo in cui si parla de L’uomo invisibile, un film coraggioso e preciso nel fare suo un tema così importante, come il miglior cinema di genere può e deve essere.

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