La parola paranza richiama subito alla mente il mare. Le paranze sono gruppi di pescatori che catturano alici e altro con la lampara, una lampada enorme, come un faro nel mare, da proiettare per penetrare il buio fino al fondo del mare. Li vedi già al tramonto affollarsi sui moli, cucire le reti bucate e aggirarsi tra i chioschi puzzolenti di pesce; chi si riprende dopo il sonno pomeridiano sorseggiando un caffè, chi invece non dorme mai e tracanna una Peroni dopo l’altra, in uno stato di ebbra estasi mistica. Questa è la paranza dei bambini, chierichetti del culto della luce, abituati a guardare nell’abisso e a riconoscersi nel mare nero petrolio; riuniti attorno al fuoco, come unici spettatori di un rito collettivo del raccolto. Pescatori di pesci o di anime, chissà.
Ma la paranza è anche lo “sfriddo” della pesca, lo scarto, quella massa indistinta dei pescetti piccoli e invisibili, che restano sul fondo della cassetta, mischiati al ghiaccio e alle alghe. Miseri esseri viventi, troppo piccoli anche solo per farne merce di scambio, buoni solo per la padella dei poveri. Pieni di farina, per dargli un minimo di sostanza, fritti nell’olio bollente e buttati in un cono di carta di giornale, sono il pasto ideale per chi non può permettersi di meglio. Quando lo sfriddo si stanca di essere scartato e usato come concime per stomaci vuoi, si unisce e reclama un posto, almeno in purgatorio, anche per sé. Proprio allora nasce la paranza dei bambini.
Nicola e la sua combriccola sono i ragazzi del Rione Sanità; anche quest’anno Natale è passato da un po’, hanno appena smaltito lo spumante di capodanno e la puzza di zolfo delle batterie di fuochi, ma non c’è tempo per rilassarsi. Tra poco arriva il giorno del Cippo di Sant’Antuono e tra non molto esploderà lo scontro con quelli dei Quartieri Spagnoli per la conquista dell’albero della Galleria Umberto; la preda più ambita, ogni anno è uno scontro senza quartiere tra tutte le bande del centro storico, che Cippo sarebbe senza l’abete dei desideri?
Una volta il Cippo era un evento che coinvolgeva tutto il quartiere, un’attività comunitaria, era un gioco di pazienza e abilità; si passava casa per casa chiedendo gli alberi ormai secchi e svuotati di regali e desideri, tutti partecipavano anche se in minima parte. Il tutto poi veniva composto, diventava un enorme bouquet di cianfrusaglie e si bruciava, come rito propiziatorio per il futuro. Il nome di Sant’Antonio la Chiesa lo ha imposto tanto per, anche perché di religioso non ha niente, manco una preghiera. Ma meglio per i preti piegarsi al volere popolare, altrimenti nel Cippo ci avrebbero buttato pure loro.
I grandi accompagnavano i più piccoli nella ricerca, era un rito di passaggio di generazione in generazione; gli adulti si preoccupavano di contenere i furori giovanili, si assicuravano che nulla di male capitasse durante il rito e durante la raccolta. Ma più di tutto era un modo per testare l’attitudine delle future generazioni a occuparsi del quartiere; saggiavano la capacità di gettare le basi di un futuro florido e propizio per la comunità, quando sarebbe venuto il momento. E poi? Poi i grandi si sono dimenticati del mito, dei riti, del culto che pulsa nel cuore greco di Neapolis e hanno abdicato ad altri la responsabilità della trasmissione orale dei saperi e delle tradizioni.
D’altronde, chi ha tempo per questi riti antichi, tra lavoro, bollette e famiglia? A stento avanza il tempo per andarsi a mangiare una pizza il sabato sera, figuriamoci preoccuparsi di cose simili. Ora sono rimasti solo loro, la paranza dei bambini, in una lotta senza quartiere con quelli degli altri rioni; ma alla fine ci hanno guadagnato anche, ora è più facile trovare cose da bruciare senza nessuno a dire come e cosa fare. La città è una giungla, vale solo la legge del più forte; conta conquistare la Galleria e fare il Cippo più grande della città.
Capace che saranno anche inquadrati da qualche telecamera di sorveglianza mentre trascinano l’albero e il giorno dopo ne parleranno tutti i TG, come l’ennesimo caso di Baby Gang a Napoli; si saranno così guadagnati anche quei quindici minuti di notorietà che spettano a tutti, almeno così dicono. Ma d’altronde, chi se ne fotte? Nessuno capisce che le leggi dello stato non valgono a casa loro; il Rione è zona franca, con le proprie leggi e le proprie autorità. D’altronde, perché dovrebbero rispettare i giudici e i tribunali? Perché dovrebbero rispettare decreti e normative?
Lo stato in quelle strade si vede solo sotto forma di volanti che passano e spassano, prendendosi qualche caffè o fermando qualche motorino. Ma poi, quando c’è bisogno di un aiuto economico, quando ti vengono a chiedere il pizzo, quando ti rubano la macchina, mica parli con lo stato? Politici, impiegati comunali, consiglieri sono buoni solo per fare promesse e comprare qualche voto, certamente non per migliorare la vita di chi nei quartieri ci vive, ci lavora e ci crepa. Per tutto il resto, c’è Don Lino che può aiutarli. Quello sarà solo il primo gradino, per la scalata all’Olimpo criminale.
Questo, a grandi linee, è l’incipit de La paranza dei bambini (2019); un pugno nello stomaco, un racconto senza peli sulla lingua della realtà quotidiana di questo gruppo di ragazzi. Giovannesi non indora la pillola, nessun tentativo di simpatizzare coi protagonisti, solo la realtà nuda e cruda; anche perché di realtà ce ne sarebbe davvero parecchia da raccontare. Facile additare, facile esprimere giudizi senza salvezza, invocare pene esemplari e quant’altro; meno facile calarsi in un mondo che di pene esemplari ne ha elargite già a iosa, sulla testa di chi colpe ancora non ne aveva avute.
A volte, nascere nella parte sbagliata del globo, del paese, della metropoli, fa tutta la differenza tra il vivere e il sopravvivere; ci sono spazi nel ventre di Napoli dove l’autorità costituita non arriva. Certamente non per favorire il crescere di sacche di illegalità, ma per puro e semplice disinteresse nei confronti di fette della popolazione lasciate ai margini, in uno stato di autonomia forzata. Non a caso, in tutto l’arco del film, lo stato appare solo una volta, di sfuggita, nella sua emanazione prettamente repressiva per effettuare un arresto. Per le strade della Sanità non si vede un professore, non un politico, un impiegato comunale, un postino.
Le figure di riferimento a cui ispirarsi, a cui chiedere un lavoro o un aiuto per evitare il racket ai propri familiari appartengono tutte a un sottobosco criminale, che fa di questo riconoscimento popolare la sua arma vincente. Nicola per smetterla di far subire soprusi a sua madre non va a denunciare, perché dovrebbe? Correrebbe il rischio di dover scappare via o, peggio ancora, di rimetterci la pelle; e in più, ha bisogno di un lavoro, ma che senso avrebbe andare al collocamento per inserirsi in liste infinite di disoccupati. Come se la fame aspettasse un lavoro pulcioso per bussare alla porta.
Questa è la realtà del rione, questo il mondo in cui crescono Nicola e la paranza dei bambini. Un mondo senza padri, senza esempi da seguire o sentieri da calcare; un mondo in cui bisogna imparare a cavarsela da soli molto presto, altrimenti, come in tutti gli ecosistemi, il pesce grande mangia il pesce piccolo. I bambini si fanno paranza allora, ma la loro è una scelta obbligata; la vita spesso pone delle domande, ma sono solo domande retoriche. È così dannatamente difficile sfuggire a quel destino segnato.
Gli elementi narrativi della pellicola di Claudio Giovannesi sono pochi, semplici, immediati; scanditi da poche inquadrature decisamente chiare e impossibili da fraintendere. Innanzitutto il contesto, come detto in precedenza, e in seguito l’immaginario in cui la realtà del Rione viene calata. Le vetrine illuminate, le discoteche piene di ragazze carine, gli abiti firmati, gli orologi da sfoggiare; non c’è niente di strano o di anormale nei desideri che muovono le azioni di questi ragazzi. L’immaginario è lo stesso, comune a tutti i loro coetanei, che siano nati a Posillipo o a Scampia poco importa; la differenza la fanno le condizioni materiali e i portafogli dei propri genitori.
Impossibile assistere inermi alla frustrazione continua e imperterrita di un Io desiderante così forte, così pressante nel conscio e nell’inconscio di un adolescente. E quali sono le strade per un ragazzo del Rione per comprarsi il Rolex d’oro da sfoggiare davanti agli amici? O le rapine, o i soldi facili della droga. Lo stesso risultato non lo otterrebbe consegnando le buste della spesa o facendo il garzone del macellaio. Nell’epoca del turbo-capitalismo, abbiamo imparato tutti benissimo cosa vuol dire fare un’analisi costi benefici; nell’epoca dei social, poco importano i mezzi per ottenere degli status symbol, l’importante è apparire.
E non è solo questione di materialità, ma soprattutto di rispetto. Se non lavori, sei moccioso e sei viziato, ma se lavori invece sei fesso. Nicola ne sa qualcosa, visto come gli scagnozzi di Don Lino trattano sua madre. Lei paga il pizzo tutti i mesi, eppure non si risparmiano battutine, furtarelli e abusi vari. Perché quando nessuno ti tutela, la giustizia devi fartela da solo, col ferro e con la cattiveria. Napoli sa essere una madre premurosa, ma anche una belva che ti azzanna alla gola; quando sei per strada e qualcuno ha voglia di prendersela con te, non ci sono sbirri o leggi che tengano. O sai farti valere, o sei finito.
Per questo è così importante trovare un’arma. Senza un ferro la paranza dei bambini non ha nessuna speranza di nascere. Una pistola è come un viatico necessario per entrare nel mondo dei grandi, dei criminali veri. Ma un proiettile non fa la maturità; il ferro in mano non rende un bambino meno infantile, ma solo più insicuro. Perché arriverà il momento in cui quel colpo in canna andrà sparato e bisognerà dimostrarsi all’altezza di tutte le chiacchiere fatte fino a quel momento. Ed è quello il momento in cui viene fuori tutta la fragilità di un ragazzino di quindici anni che gioca a fare il grande, ma che si rende conto troppo tardi di aver appena ammazzato la sua innocenza.
La paranza dei bambini è un film di volti, che si susseguono e si accavallano, che si incontrano; facce che si stagliano su uno sfondo sempre opaco, sempre fuori fuoco. Perché la realtà di questi quartieri è fatta principalmente di sorrisi, che diventano ghigni troppo presto; bambini schiacciati sotto il peso di responsabilità troppo pesanti, che poggiano su spalle ancora troppo piccole e gracili. La telecamera si concentra solo sui primi piani dei protagonisti, tutto il resto resta indietro; gli altri non esistono, non hanno vita propria, vengono inclusi nell’obiettivo solo se hanno a che fare con Nicola e il resto della paranza. Mentre la città invece non esiste, è un ammasso di figure indistinte, come guardare il panorama che sfila via da un’auto in corsa.
Un panorama pieno di mattoni di tufo giallo sventrati dal tempo, come una vecchia città inacidita e decadente che mostra le sue nudità per la strada, e il basolato nero, come la bocca del cratere di un vulcano sul punto di esplodere. Non ci sono inquadrature da cartolina stavolta né sprazzi di obbrobri urbanistici. C’è solo il ventre di Napoli, sempre più marcio, e un gruppo di ragazzi che per sopravvivere può contare solo sulla propria forza. Troppo facile indicarli come criminali, molto più complicato mettere in discussione i propri riferimenti immaginifici e culturali. Impossibile ammettere di averli messi con le spalle al muro, di averli illusi di poter avere una vita da sogno, come nelle pubblicità, e poi avergliela soffiata via da sotto al naso.
Nicola: «Nun saccio jucà ‘o pallone».
Come La Haine (1995), a distanza di quasi trent’anni, la paranza dei bambini racconta la storia di una società che corre a perdifiato, lasciando sul suo cammino troppe vittime innocenti. L’infanzia di chi è dovuto crescere in fretta, per rispondere agli abusi o per farsi carico della propria famiglia; i sogni di una generazione cui hanno tarpato le ali, perché non c’era più posto alla cena della borghesia. E allora precipitiamo, tutti insieme, verso il baratro. C’è chi ha un paracadute e un materasso comodo su cui atterrare, chi invece spera che la sorte non gli giochi brutti scherzi; e poi c’è chi è in caduta libera, conta i secondi prima dello schianto, e si domanda perché proprio lui debba fare da vittima sacrificale per lavare le coscienze di tutti.
Bisognerebbe smetterla di essere schegge impazzite, perse nel circolo del “produci-consuma-crepa”; bisognerebbe avere il coraggio di guardarsi dentro. Guardare quel cuore nero, avido e putrefatto, che pulsa nel petto della nostra società decadente e ormai al collasso; senza vergogna di ammettere che batte forte anche nel corpo di ogni cieco benpensante, arroccato nella torre d’avorio del buon senso, e non solo nei vicoli e nelle periferie. È arrivato il momento di togliere la testa dalla sabbia e scoprire chi ha armato questi bambini con la pistola.