Un antieroe frustrato, delle ambizioni espressive disattese e il roboante e grottesco mondo della televisione italiana.
Renè Ferretti, protagonista di Boris, navigato regista di fiction della televisione pubblica, è destinato a non poter essere felice. Questo è l’assioma scolpito nell’immaginario di innumerevoli fan della serie trasmessa dal 2007 e il 2010: il motivo per cui, a distanza di dieci anni, Boris è considerata una serie culto, risiede nella sua capacità di narrare con ironia il dietro le quinte del mondo dell’intrattenimento, ciò che in genere resta fuoricampo.
L’efficacia della scrittura di Ciarrapico, Torre e Vendruscolo sta nell’abilità di offrire uno sguardo satirico capace di preservare un tono realistico e attuale. Boris è una meta-serie capace di intrattenere ed esilarare il pubblico parlando in modo leggero, ma disincantato, dell’intrattenimento stesso.
Tra una risata e l’altra, decostruisce i cliché e le nevrosi della fiction italiana, partendo dai marchingegni narrativi stantii e arrivando a chiamare in causa il perbenismo e la pavidità dei dirigenti di rete. Il sostrato tematico di tutta la serie è proprio la caricatura del mondo dello spettacolo più istituzionalizzato, irrigidito e polveroso. Una caricatura che appassiona proprio perché non distante dal ritratto reale.
In Boris, lo sguardo sul grottesco mondo della fiction italiana è obliquo, trasversale.
Stanis e Corinna rappresentano la vanità del settore, la superficialità e la vuotezza; dall’altra parte, ma sullo stesso set, Biascica, Duccio, Itala: quasi beckettiani nel loro modo straniato, sono invece la faccia più terrena, quella delle maestranze, del lavoro impiegatizio.
La gerarchizzazione si sfalda in una serie di maschere nevrotiche, tutte caratterizzate con rotondità. Salendo la piramide, i vertici della rete: Il Dottor Cane, deus ex machina silente e immobile, che rifiuta qualsiasi contenuto che si scolli dagli stereotipi rappresentativi più accomodanti, che premia gli appoggi politici più che i meriti espressivi.

I protagonisti di Boris (Alessandro, Renè, Stanis, Arianna e Biascica)
A fare da perno narrativo è il personaggio di Renè, flâneur moderno mischiato alla folla, antieroe in cui coesistono la vanità dei sedicenti artisti, la disillusione dei lavoratori dello spettacolo e il cieco asservimento al denaro delle dirigenze.
Lui è il capo di quel bestiario avvilito che popola “la fabbrica dei sogni” della periferia romana, un sotto-mondo a tratti circense nella sua varietà.
“Un’altra televisione è possibile” è il titolo dei primi due episodi della terza stagione. Renè sta per vedere realizzato il sogno di girare Machiavelli: finalmente un prodotto di contenuto, una narrazione che non abbia il solo scopo di anestetizzare il pubblico. Dopo anni di prodotti scadenti quali Libeccio, La bambina e il capitano e l’orribile Caprera, Renè ha finalmente l’occasione di dimostrare al pubblico la sua reale caratura artistica, ma come è comicamente ovvio, non lo farà.
Il suo personaggio è spesso scritto giocando sul conflitto tra desiderio e sua frustrazione, tra obiettivo e fallimento nel raggiungerlo, un topos comico basilare, ma non per questo ovvio. In questo, Renè echeggia i personaggi delle slapstick comedy, la lunga serie di ‘sfortunati’ comici che parte da Buster Keaton e arriva a Donald Duck.
La comicità di Renè Ferretti, vero cardine narrativo dell’intera serie, però, non si esaurisce nella logica ancestralmente comica del conflitto, non basta a se stessa.
Nel corso degli eventi che succedono i primi due episodi – l’allucinatoria breve esperienza alla rete concorrente, l’immersione nelle ombre della sanità pubblica con Medical Dimension – capiremo che, in realtà, un’altra televisione non è affatto possibile e sembra l’epigrafe testamentaria della serie, ma anche il postulato innegabile di partenza, la drammatica realtà per cui si assume sia meglio ridere per non piangere.
È proprio la consapevolezza di questo a rendere Renè un personaggio tridimensionale, che non si esaurisce nella comicità, tingendosi di malinconica amarezza per il continuo svilimento delle sue ambizioni di bellezza. Se, ad esempio, Duccio accetta la grigia realtà della sua funzione meramente tecnica con un nichilismo placido; Renè non si rassegna alla sua posizione di addetto ai lavori, di impiegato dell’intrattenimento.
Il suo è un personaggio drammatico nella sua predestinazione all’infelicità, nel suo volere un appagamento che lui stesso è il primo a sabotare.

Renè e Boris
È da questo punto di vista che ammicca a personaggi la cui tragedia sta nello scollamento tra sogno e realtà dei fatti, molto spesso legati ad ambizioni artistiche: come Kostja de Il Gabbiano di Cechov, ha deliri di grandezza, elucubra a intermittenza sulla sua opera magna, disprezza i romanzetti a buon mercato e le vanità dello star system, ma è il primo a esserne succube, totalmente in balìa.
Renè Ferretti non potrà mai essere felice perché non potrà mai fare una televisione che graffi lo schermo, che non si stravacchi sulle narrazioni lineari, annacquate, stereotipate e stucchevoli. Ne è consapevole, ma per andare avanti deve illudersi di no e continuare a oscillare tra entusiasmo isterico e disperazione profonda.
È un despota del set, abituato a urlare, offendere, manipolare e affabulare all’occasione. Talvolta in preda ad allucinazioni di grandezza, mosso da nobili intenti creativi, più spesso affranto e asservito alla dura legge del denaro, con l’unico obiettivo di portare a casa la puntata.
Stare dentro i tempi, stare dentro il budget risicato, stare dentro le polverose aspettative del pubblico medio: delimitazioni all’ego artistico che portano Renè a una disillusione ciclica, intermittente. In fondo, lui per primo è ostacolo di se stesso: si scontra con la sua sete di denaro, la sua inettitudine e la sua pigrizia, totalmente incapace di gestire la sua vita personale e di prendere le redini del set, continuamente affidato ad Arianna.
Dà l’idea di credersi più geniale di quanto non sia in realtà, lui per primo ancorato a riferimenti estetici triti della cinematografia italiana, a entusiasmi esterofili che sembrano scimmiottamenti.
La sua tragicommedia parte da un malinteso di fondo: nel mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento vince il mediocre, ciò che non disturba e le proprie aspirazioni creativo-espressive vengono irrimediabilmente frustrate.
Come un Don Chisciotte chiamato al più triste dei confronti con la realtà, arriverà ad abbandonare definitivamente anche il progetto di Medical Dimension. Ripiegherà sulla terza, sanguinaria stagione, de Gli Occhi del Cuore, perché in fondo «la qualità c’ha rotto il cazzo».
Questo è il lascito dolce-amaro di Boris, un racconto che non ha mai smesso di ragionare sulle abitudini fruitive culturali del nostro paese, prima che dei suoi fantastici personaggi. Ridendo e scherzando, Boris dà una lettura del mondo, prima che dell’intrattenimento: il trionfo è riservato al mediocre, allo sforzo minimo, all’accettazione dello stato delle cose. Renè Ferretti può accettarlo, diventare una pedina dell’ingranaggio, oppure può tranquillamente andare a fare la guardia forestale in Abruzzo.
La serie tutta vede in Renè Ferretti la semantizzazione del suo aspetto analitico dopo che comico, della sua meta-testualità.
Non a caso Boris è il nome della serie ma anche del pesciolino che Renè Ferretti ha scelto come sua musa artistica per Gli Occhi del Cuore, simbolicamente posizionato accanto al monitor di regia.
In questo senso Boris pesce è l’occasione di monologare del personaggio del regista, la sua coscienza e, insieme, la sua illusione artistica, la sua ninnananna rassicurante. Renè Ferretti vede in Boris, come in tutti gli altri pesci rossi, la sua autostima di artista rinchiusa in una piccola boccia.
Ma deve accettarlo: un’altra televisione non è affatto possibile e lui non potrà mai essere felice, risolto, appagato. Dovrà accontentarsi degli attentati risolutori, delle trovate narrative irreali, della comicità alla “buciodeculo”, della luce smarmellata senza ombre.
Il motivo per cui Boris e Renè Ferretti sono rimasti nell’immaginario narrativo di molte persone, sta nel loro rapporto dialettico con la realtà, per la capacità di essere comici e realistici in modo complementare. Ciarrapico, Torre e Vendurscolo scrivono comico con la coscienza della tragicità del reale prima che dell’iperbole e riescono con paradossale normalità a parlare dell’impossibilità di fare tv di qualità, facendola egregiamente.




