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Equilibrium e il Neopositivismo – La dittatura del raziocinio

Edoardo Wasescha

Gennaio 20, 2021

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Le emozioni vengono, da sempre, contrapposte alla razionalità. A marcare un simile conflitto interviene la dicotomia tra fatti e valori, che solca l’universo della civiltà umana, relegando i primi al lato dell’oggettività, mentre i secondi a quello della soggettività. Se il neopositivismo ha ridotto i giudizi etici a semplice espressione di emozioni, Equilibrium (2002) ha mostrato un futuro distopico in cui le emozioni sono soppresse, al fine di spegnere qualsiasi giudizio che possa scivolare nella soggettività.

Corre l’anno 2072 e, dell’umanità come la conosciamo, è rimasto ben poco. La città-stato di Libria è l’ultimo baluardo della civiltà, ciò che separa la razza umana dall’estinzione. Al fine di scongiurare i fantasmi di un altro conflitto nucleare, dopo che la Terza Guerra Mondiale ha devastato il pianeta, il nuovo ordine politico, creatosi dalle macerie istituzionali di un mondo in rovina, ha deciso di intervenire drasticamente sulla capacità umana di provare emozioni, motore di ogni azione autodistruttiva dell’uomo, guerre comprese.

L’intera popolazione è costretta giornalmente ad assumere il Prozium, una droga che agisce da inibitore delle emozioni. Inoltre, è severamente vietato possedere libri, giocattoli, opere d’arte, lettori musicali e, più in generale, ogni oggetto che, stimolando i sensi umani, possa risvegliare emozioni sopite.

L’equazione neopositivista, che risolve la morale in emozioni, viene tradotta nel linguaggio distopico di Equilibrium, dove sono scomparse entrambe.

Sean Bean e Christian Bale

Il potere assoluto, in Equilibrium, è detenuto nelle mani di un individuo che si fa chiamare “Il Padre”. Al suo servizio, l’organizzazione del Tetragrammaton si occupa di vigilare sull’ordine costituito e ha nei Clerics le sue più efficaci armi, fra i quali spicca il letale John Preston (Christian Bale).

Equilibrium, pellicola diretta da Kurt Wimmer, getta lo spettatore in un ambiente emotivamente sterile, asettico, dove la dittatura del raziocinio regna incontrastata.

Eppure una semplice poesia, quasi inudibile, riuscirà a rompere un silenzio altrimenti perfetto, dapprima sussurrata dalla bocca del collega di Preston, che di lì a poco sarebbe stato ucciso dallo stesso. Una poesia poi urlante nella testa di Preston, come una di quelle idee che, una volta insinuate nella mente, vi si radicano, germogliando prepotentemente.

«E invece io, essendo povero, ho soltanto i miei sogni, e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi. Cammina leggera perché cammini sopra i miei sogni».

(William Butler Yeats, “He Wishes for the Cloths of Heaven”)

Ma torniamo un attimo agli anni ’20 del secolo scorso, quando un gruppo di intellettuali – fisici, filosofi, matematici, psicologi – iniziò a riunirsi in quello che presto avrebbe preso il nome di Wiener Kreis, ovvero Circolo di Vienna. L’obiettivo era quello di fornire una nuova visione del mondo, che fosse in grado di restituire priorità a una conoscenza fondata su basi empiriche, sfruttando nuovi strumenti come l’analisi logica del linguaggio e il criterio di significanza.

Alcuni membri del Circolo di Vienna

Fu così che nacque il neopositivismo – o positivismo logico, più tardi chiamato anche empirismo logico. Non è questa la sede, tuttavia, per dilungarsi ulteriormente.

È invece importante, per i presenti fini, prendere in esame l’approccio dei neopositivisti nei confronti dei giudizi morali – approccio noto col nome di emotivismo. Quest’ultimi non sarebbero altro che espressione di sentimenti ed emozioni. Non fornirebbero, dunque, una vera conoscenza, poiché non riducibili a proposizioni sintetiche – vere o false in virtù dell’esperienza – né a proposizioni analitiche – vere o false in virtù della propria struttura logica.

«La validità oggettiva di un valore o di una norma non si può verificare empiricamente, né dedurre da proposizioni empiriche; ciò vuol dire, dunque, che non può neppure venir espressa (con una proposizione sensata). In altri termini, o si adducono delle caratterizzazioni empiriche per «buono» e «bello», e per tutti gli altri predicati in uso nelle scienze normative, o no. Nel primo caso, una proposizione contenente tale predicato diventa un giudizio di fatto, empirico, ma non un giudizio di valore; nel secondo caso, diventa una pseudoproposizione. In nessun caso, si può costruire una proposizione esprimente un giudizio di valore».

(Alfred Jules Ayer, “Linguaggio, verità e logica”)

L’equazione neopositivista, che risolve la morale in emozioni, viene tradotta nel linguaggio distopico di Equilibrium, dove sono scomparse entrambe.

John Preston, protagonista di “Equilibrium”

Sostanzialmente, l’emotivismo neopositivista riduce la morale a una forma di pseudoconoscenza, poiché gli enunciati che ne fanno parte – essi sostenevano – non hanno alcuna aderenza alla realtà, non ci dicono nulla intorno a essa; non costituiscono conoscenza, per l’appunto. Si tratta di enunciati che semplicemente esprimono emozioni, stati d’animo, unicamente basati su sentimenti, ma senza alcun rimando alla dimensione fattuale, a come è fatto il mondo.

Insomma, non c’era il divieto di provare emozioni nella Vienna di fine anni ’20, ma la weltanschauung che, da lì, si sarebbe diffusa anche nel resto d’Europa somigliava molto a una dittatura dei fatti, a scapito di una morale ridotta a cianfrusaglia. Valori, norme e giudizi in vendita a prezzo stracciato al mercatino delle pulci.

È quantomeno singolare veder tradotta l’equazione neopositivista, che risolve la morale in emozioni, nel linguaggio distopico di Equilibrium, dove la morale è addirittura scomparsa dall’equazione.

A una disamina più attenta, tuttavia, ci si rende conto del perché. Il pensiero morale è indissolubilmente legato alla capacità di provare emozioni, tanto che alla scomparsa della seconda seguirebbe inevitabilmente la scomparsa anche del primo. A Libria, invero, non esistono più giusto e sbagliato, buono e cattivo, bene e male: esiste solamente una legge impersonale, scarna, amorale.

John Preston, protagonista di “Equilibrium”

John: «Qual è il punto della tua esistenza?».

Mary: «Sentire. Tu non l’hai mai provato e non potrai mai saperlo, ma è vitale come il respiro. E senza quello, senza amore, senza rabbia, senza dolore, il respiro è solo un orologio che fa tic tac».

Risulta difficile capire cosa rimanga dell’esistenza umana una volta sottrattavi la capacità di sentire se stessi, di sentire gli altri, di sentire il mondo. Non ci sarebbero più verdi prati sui quali sdraiarsi a osservare come il vento rincorre le nuvole né terreni fertili in cui coltivare la propria umanità. Il clima arido di una raziocinio torrido ridurrebbe in polvere ogni relazione intrattenuta con se stessi, con l’Altro, financo con la vita stessa.

Fortunatamente una poesia ha spezzato il dominio della razionalità, che resta una più che utile guida lungo il nostro cammino, qualora non si imponga come principio dogmatico. Sono stati i versi di Yeats a trarre in salvo l’umanità, ma sarebbe anche potuta essere Moonlight Sonata di Beethoven, o The Starry Night di Van Gogh, o il David di Michelangelo.

Le emozioni hanno sempre un costo, ma il prezzo da pagare per vivere senza è la nostra umanità.

The Starry Night (Van Gogh)

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