L’ Italia che ci racconta Paolo Sorrentino è sempre un Italia poetica, contradditoria, culla di bellezza e di eccessi. Il periodo storico in cui è ambientato Il Divo è una delle pagine più buie della storia del nostro paese. A partire dall’anno 1992 con la scoperta di Tangentopoli e l’inizio della “stagione delle stragi”.
Il “Divo” in questione è Giulio Andreotti, uno dei personaggi politici protagonisti della Prima Repubblica Italiana. Sette volte Presidente del Consiglio e nominato Senatore a vita dall’allora presidente della repubblica Francesco Cossiga.
Sorrentino nella pellicola ritrae una figura caricaturale di Andreotti, servendosi del suo attore-feticcio Toni Servillo. Gli elementi che contraddistinguevano la sagoma di Andreotti come gli spessi occhialoni, la gobba, le orecchie larghe e sporgenti e l’espressione ferma, che sono stati bersaglio inevitabilmente della satira del tempo. Umorismo che caratterizzava anche il suo modo di essere, disseminando autoironia e aforismi taglienti.
Guardiamo da vicino i comportamenti di Giulio Andreotti nella sua quotidianità, tra il passaggio in chiesa, in parlamento e i rapporti con i suoi “fedeli”, appartenenti alla “corrente andreottiana”. Sorrentino nel suo cinema ha sempre spinto verso il concetto di “contraddizione” presente nella psiche umana e che caratterizza, in questo caso, gli uomini al potere. Il regista presenta queste contraddizioni nelle tanto amate e inscenate feste sfarzose ed eccentriche, ricorrenti pure ne La Grande Bellezza. Queste feste appaiono fuori luogo, simbolo di festeggiamenti chiusi in un atrio, in una stanza, mentre fuori si sgretola tutto. Mentre si festeggia intanto fuori infuriano pallottole. Intrecci e scandali vengono a galla un pò alla volta attraverso i racconti di pentiti: la situazione è seria ma si trova il tempo di ballare e cantare. Danze tra chi è all’oscuro e tra chi conosce e tace.
Il regista anestetizza la tensione delle vicende, attraverso una colonna sonora divertente, sopra le righe, che rende tutto immerso in un’atmosfera da soap opera, un teatro. Ha tutto l’aria di essere una trama cinematografica con i fiocchi, che contiene tutti gli elementi per essere avvincente e tener incollato lo spettatore allo schermo. Tutto cambia però quando i fatti che si osservano si avvicinano troppo alla realtà e le nostre bocche aperte in una risata lentamente si chiudono e si incurvano in un sorriso malinconico.
La chiave umoristica dell’opera allontana e avvicina in continuazione il divario tra fantasia e realtà fino a quando la realtà non divora la fantasia. L’umorismo tiene anche una certa “normalità” nell’oscurità dei fatti fino a quasi una rassegnazione all‘ovvietà del male presente dove meno ce lo immaginiamo. “Non ci resta che ridere” sembra voler dire, come in una scena tra il Divo e la moglie mentre durante uno zapping tv per saltare le notizie sulle accuse al senatore, finiscono su un concerto di Renato Zero che canta I migliori anni della nostra vita. Ritornello che negli anni più bui della storia repubblicana fa un certo effetto.
Giulio Andreotti è una figura complessa, difficile da decifrare e che Sorrentino sfoglia piano, disseminando indizi che lasciano allo spettatore quella sicurezza sulla verità ma anche quell’alone di mistero. La sicurezza che la visione di certe scene ti trasmette, ti porta a dare subito un giudizio. Un’ovvietà che poi condiziona la visione del film ma che viene spesso smussata dalla figura di Andreotti e dalle sue parole. Come se il regista fosse il giornalista che denuncia la sua versione dei fatti ma viene interrotto dalle parole stesse di Andreotti che lo mandano fuori strada.
Le denunce spesso trovano spazi nei giornali, nella televisione ma soprattutto nei muri delle città. Il protagonista ad un certo punto si ferma a osservare una scritta su un muro che recita: “Complotti e stragi portano la firma di Craxi e Andreotti“. Il Divo aveva l’abitudine ad essere accusato tanto che ripeteva che tranne le guerre puniche gli avevano attribuito di tutto.
Indaghiamo ora la figura esteriore e la figura interiore del Divo. Egli è un uomo credente e devoto che vive religiosamente e che spesso va in chiesa a confessare i propri peccati. Si definisce un peccatore agli occhi di Dio. Giulio viene rappresentato come una persona ferma e taciturna ma soprattutto enigmatica. Soffre di emicrania, forti mal di testa che lo colpiscono quando accade qualcosa a qualche personalità del panorama sia politico che giornalistico dell’epoca. Ricorre all’agopuntura, come per calmare qualcosa nella sua testa che vuole tenere dentro e calmo. La sua figura si muove tra i corridoi della sua casa e quelli del parlamento ma nelle maniche sembra nascondere dei fili.
Sotto il pavimento si nasconde una grossa ragnatela in cui qualcuno tesse e qualcuno si impiglia.
Lui è come una statua di cera che assorbe e si tiene dentro. Tutto succede ma è come se il protagonista non se ne accorgesse: aleggia una certa ingenuità in Andreotti. Fuori certi personaggi muoiono. Vengono uccisi Salvo Lima, Mino Pecorelli. Muore Michele Sindona, Roberto Calvi e Giorgio Ambrosoli. Tutte queste creano fitte alla testa del Divo e disturbano la sua esistenza.
Il senatore è un lettore di libri gialli che s’intonano perfettamente con il flusso della storia raccontata da Sorrentino, dove qualcuno muore e si cerca l’assassino. Durante le votazioni per la salita al Quirinale spinta dai suoi sostenitori, Andreotti sta leggendo un libro giallo da dove all’improvviso strappa una pagina.
«Stava per rivelare l’assassino, io non voglio mai saperlo».
(Giulio Andreotti)
Il senso di colpa batte da dentro il protagonista che attraverso una grande forza interiore rimane di cera, fermo e lucido. Le brigate rosse rapiscono Aldo Moro che attraverso delle lettere chiede la trattazione che porterebbe alla sua liberazione. Come la storia ci racconta quelle lettere contenevano al suo interno delle rilevazioni scottanti sui compagni di partito di Moro tra cui Andreotti. Moro non verrà liberato e verrà ucciso dalle BR, mentre le lettere finiranno nella mani del giornalista Mino Pecorelli che verrà freddato all’interno della sua autovettura.
Nel film tutto viene fatto canalizzato nella figura del Divo, che nella sua compostezza e religiosità manovra un sistema di crimini e eliminazioni di personaggi scomodi. L’idea che nasce e che mette Giulio Andreotti sotto la luce del villain di qualunque film di spionaggio. Riflettiamo su quanto il potere possa essere esercitato anche in silenzio, con i pollici che roteano. Di quanto la sua sagoma sia strattonata dalla verità da una parte e dalla falsità dall’altra. La verità e il potere possono convivere nello stesso corpo?
«Una volta invece ho fatto un fioretto, fu quando le brigate rosse rapirono Aldo Moro, mi ripromisi, se si fosse salvato, di non mangiare più gelati. Io sono molto goloso di gelati».
(Giulio Andreotti)
La domanda posta poc’anzi trova sfogo in un monologo che il Divo rilascia, seduto su una sedia in una stanza buia. La contraddizione che tanto ritorna nelle scene trova appoggio nella sue parole. Parla di come spesso per fare il bene sia dovuto fare il male, di come il potere non ami la verità, anzi è solo un intralcio. Si ritrova a un cento punto analogo al Dio cristiano, in cui per fare il bene bisogna fare il male, dove convergono. Ritorna l’elemento della contraddizione, quasi resa obbligatoria in un uomo al governo, dove si predica bene ma si razzola male, anzi peggio. Viene messo in luce lo stereotipo classico del potere, dove vedi solo una facciata messa in luce dai media ma che ti porta a mal pensare su cosa possa succedere dietro le quinte.
Questo “mal pensare” che il film ci impianta nella testa, ti porta a vedere per tutta la durata del film un “uomo che mente, un uomo che nasconde“. Un giornalista a un certo punto spara al senatore un serie di accuse in cui tutti i fatti che succedono in un modo o nell’altro ritornano sempre alla figura di Andreotti.
«Non credo al caso, io credo alla volontà di Dio».
(Giulio Andreotti)
È il Dio presso cui il Divo si rifugia, attraverso il sacerdote a cui racconta i suoi peccati. La religione dove si rifugia, dove viene giudicato ma verrà sempre perdonato. Meglio essere giudicati dal tribunale celeste che da quello in marmo. Una realtà parallela dove può purificarsi, dove può raccontare ciò che nella vita di tutti i giorni deve tenere nascosto. Anche se poi l’elemento del potere ritorna anche nella spiritualità dove il sacerdote racconta al senatore di come in chiesa De Gasperi parlasse con Dio mentre Giulio parla con il prete. Lui ricorda che i preti votano e Dio no.
La religione dove si viene sempre perdonati mentre la fuori si è puniti per le proprie colpe.
Colpe che però il divo alla fine non sconterà. Andreotti verrà indagato e processato ma alla fine di tutto verrà assolto per la non sussistenza delle accuse. E tutto finisce in una canzone finale che riporta a tutto ad un semplice finale di un film, perché di film si tratta ma lascia l’amaro in bocca. Finisce tutto in nulla di fatto, in cui i segreti rimangono e rimarranno per sempre, dove tutti la fanno franca. Sorrentino sembra rimarcare degli stereotipi, in cui tutto non è mai come sembra, in cui le persone sono più enigmatiche di quanto pensiamo. Soprattutto quando di mezzo c’è il potere. Dove noi non sappiamo e non sapremo mai del tutto il “dietro le quinte” delle realtà e porta a quel “pensare male” tipico della visione della scacchiera politica in questo caso. Perché più comprendi più il mistero s’infittisce.
«A pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso s’ indovina».
(Giulio Andreotti)
Oriana fallaci, durante un’intervista a Giulio Andreotti parlava così dell’enigmatico personaggio:
«Lui parlava con la sua voce lenta, educata, da confessore che ti impartisce la penitenza di cinque Pater, cinque Salve Regina, dieci Requiem Aeternam, e io avvertivo un disagio cui non riuscivo a dar nome. Poi, d’un tratto, compresi che non era disagio. Era paura. Quest’uomo mi faceva paura. Ma perché? Mi aveva ricevuto con gentilezza squisita: cordiale. Mi aveva fatto ridere a gola spiegata: arguto, e il suo aspetto non era certo minaccioso. Quelle spalle strette quanto le spalle di un bimbo, e curve. Quella mancanza quasi commovente di collo. Quel volto liscio su cui non riesci a immaginare la barba. Quelle mani delicate, dalle dita lunghe e bianche come candele. Quell’atteggiamento di perpetua difesa. Se ne stava tutto inghiottito in se stesso, con la testa affogata dentro la camicia, e sembrava un malatino che si protegge da uno scroscio di pioggia rannicchiandosi sotto l’ombrello, o una tartaruga che si affaccia timidamente dal guscio. A chi fa paura un malatino, a chi fa paura una tartaruga? A chi fanno male? Solo più tardi, molto tardi, realizzai che la paura mi veniva proprio da queste cose: dalla forza che si nascondeva dietro queste cose. Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza».
(Oriana Fallaci)