I mostri – Ironia e amarezza. Lo schiaffo di Dino Risi all’Italia del miracolo economico.
È la fine di ottobre del 1963, l’Italia sta per entrare nell’era Aldo Moro, vivendo il momento ormai noto e senza precedenti del miracolo economico, che sembra addirittura inarrestabile.
Eppure, proprio nel 1963 si verifica il primo shock salariale dal dopoguerra.
Proprio in questo periodo Dino Risi, uno dei maestri della commedia all’italiana, consegna alle sale cinematografiche un film bizzarro, curioso e inaspettatamente fresco, come solo i grandi classici sanno essere.
Un film che risulta una vera novità al momento della sua uscita e che rivisto oggi non perde nemmeno un grado di quella freschezza e originalità tali da avergli garantito la presenza tra “I 100 film italiani da salvare”.
Un progetto che risale all’ormai lontano 2008, realizzato dalle Giornate degli Autori all’interno della Mostra del cinema di Venezia, con lo scopo di segnalare “100 pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978”.
Si tratta chiaramente de I mostri. Venti episodi scritti da Elio Petri, Age e Scarpelli, Ruggero Maccari, Ettore Scola e infine dal già citato Dino Risi, che dirige l’intero film.
I mostri racconta con estrema lucidità, ironia, amarezza e schiettezza le grandi ipocrisie, debolezze e ignominie del popolo italiano che vive il miracolo economico.
Un racconto che si dipana tra personaggi caratteristici del tempo, ripescati dalla cronaca, e altri invece scritti e dunque inventati di sana pianta per la narrazione didascalica e antologica che è propria del film di Risi.
Il film è un impietoso, grottesco, immorale, sadico, crudele ed esilarante ritratto di un’Italia che forse abbiamo conosciuto e vissuto, ma mai mostrato realmente.
Quell’Italia che si scontra con sé stessa, che si racconta di vivere la società, la politica, la famiglia e la religione nel modo corretto, senza sbagli o menzogne, e che in realtà fa l’esatto opposto.
Riflessione che Risi compie prendendo di mira tanto la classe borghese, quanto quella operaia, ragionando sui vizi, il senso di appartenenza alla propria società o classe sociale, ma anche alla famiglia.
Il film di Risi in qualche modo rappresenta una deflagrazione di quelle certezze che piano piano sono crollate, hanno perso stabilità, rimodellandosi e trasformandosi con il primo shock salariale del 1963. Evidenti tanto in sceneggiatura, quanto in regia, sono il desiderio irrinunciabile e la volontà così spiccata propria di Dino Risi di distruggere e manomettere i canoni di una società e di una narrazione pigra.
Talvolta accomodata su sé stessa e per questo ripetitiva tanto quanto pacifica, falsamente gioiosa e nient’affatto scomoda.
I venti episodi cercano lo sporco, il sadismo e l’ironia crudele ovunque, nella religione, nella famiglia, nella politica, nella giustizia e soprattutto nell’amicizia.
Risi sembra fare un discorso molto semplice al suo pubblico, riassumibile in questo modo: tutto è menzogna.
Ci siamo raccontati il falso, commettendolo noi stessi, pur di continuare a vivere l’illusione che questo fosse il modo corretto di vivere la società, il lavoro, e allo stesso modo la nostra appartenenza alla famiglia, intesa anche in senso religioso e politico, nascondendo discretamente la realtà delle cose sotto al tappeto.
Non siamo uniti, forse non lo siamo mai stati e per questo ci ritroviamo, ora e per sempre, uno contro l’altro, facendoci del male, prendendoci per i fondelli e ridendo di noi stessi. Conoscendo più che bene, pur senza ammetterle, tutte le nostre ipocrisie e debolezze.
Uno schiaffo allegorico, pesante, ma ironico.
Uno sberleffo senza precedenti che giunge perfino a prendersi gioco e fare dell’ilarità sullo stesso sistema cui appartiene, lo stesso che in qualche modo lo ha creato, quello del cinema.
In particolare nell’episodio Presa dalla vita, Risi (sempre spalleggiato e accompagnato dai suoi sceneggiatori di riferimento) racconta, chiaramente esasperandolo in funzione dei suoi interessi e della narrazione, il lato nascosto del fare cinema. All’interno di questo breve segmento, interpretato come tutti gli altri da Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, assume un ruolo rilevante un’anziana signora (Maria Mannelli), che in un giorno come tanti si ritrova a passeggiare tranquilla per le strade apparentemente deserte della sua città.
Sembrerebbe un affresco di solitudine e di pace pomeridiana, fino a quando un gruppo di uomini ben vestiti, capitanati da Vittorio Gassman decide di rapire l’anziana signora.
Dissolvenza.
Noi crediamo che tutto possa accadere: una richiesta di riscatto, un omicidio, oppure un esilarante sbaglio da parte degli stessi rapitori. Invece ci ritroviamo su un set cinematografico.
Scopriamo che Vittorio Gassman è un addetto ai casting e che l’anziana signora rapita è stata costretta a interpretare il ruolo su sedia a rotelle di un’anziana inferma che viene gettata in una piscina nel bel mezzo di una festa.
A dirigere questo film fittizio c’è Ugo Tognazzi, nei panni di un simil Federico Fellini. Egli non soltanto è complice di un rapimento chiaramente tremendo e scorretto, ma anche di una sorta di tortura psicologica e fisica ai danni dell’anziana signora.
Poiché, accomodato sulla sedia da regista, esplicita la richiesta di ripetere ancora e ancora e ancora proprio la scena della caduta dell’anziana nelle acque della piscina, tra le urla disperate della poveretta e l’obbedienza mesta dell’addetto al casting interpretato da Gassman.
Risi si prende gioco del cinema, di un certo far cinema e compie questa riflessione nel modo più scomodo possibile, attraverso il dramma e il grottesco, qualcosa di assolutamente raro prima di allora.
I predatori – Pietro Castellitto sul grottesco e la violenza dell’Italia di oggi
A distanza di ben cinquantotto anni, giunge a noi I predatori. Film d’esordio di Pietro Castellitto che a sua volta racconta servendosi di una narrazione episodica e altrettanto ironica, un’altra faccia dell’Italia di oggi, che noi stessi stiamo vivendo, pur senza conoscerla e mostrarla.
O forse semplicemente non vogliamo ammettere il contrario?
Sulle orme di Risi, Castellitto prende di mira l’Italia borghese e proletaria.
Così come la religione, il sistema universitario, la famiglia, la politica (o più specificatamente le ideologie), l’amicizia e la criminalità. Tutto ciò in un susseguirsi di intrecci che si presentano nelle vesti di episodi separati l’uno dall’altro e che finiscono invece per legarsi.
I predatori infatti si pone come obiettivo quello di non risparmiare niente e nessuno.
Non vi è alcuna tolleranza o cecità da parte di Castellitto rispetto ai temi trattati, alle incongruenze di un paese che si racconta d’essere ordinato, pulito e retto da un sistema giusto, nient’affatto corrotto e preferenziale. Un percorso che comincia nella famiglia: una truffa che seppur incarnata da un personaggio fortemente simbolico interpretato da Vinicio Marchioni, si ricollega immediatamente alla società reale.
L’anziana Vismara non è stata truffata da un uomo qualunque, da un disperato bisognoso di denaro, bensì da un prodotto della società.
L’approfittatore, lo scalatore sociale nell’ombra, che si serve dei deboli, aspirando alla ricchezza, alla fama e alla potenza e che si serve chiaramente di illeciti mascherati da buone azioni. Una truffa che Castellitto ritrova e colloca nel sistema universitario.
C’è infatti il segmento in cui un giovane studente e appassionato ricercatore dell’opera di Nietzsche, interpretato dallo stesso Pietro Castellitto, pur vivendo per anni nell’ombra dell’anziano docente, interpretato da Nando Paone, subisce l’ingiustizia di un ruolo dapprima assegnatoli dal docente e subito dopo privatogli.
Ecco dunque la scorrettezza e la corruzione di un sistema che tutt’oggi perdura nel preferenziale e nell’immorale.
Torna ancora una volta la truffa nella rappresentazione di un fare cinema scorretto, grottesco, violento eppure esilarante, chiaramente discendente da quello de I mostri di Risi.
Emblematico in questo senso è l’episodio dell’impiccagione.
Ludovica Pensa (Manuela Mandracchia) è una regista affermata. I suoi film però sembrano non raggiungere mai né il successo né l’accoglienza di critica e di pubblico attesa e sperata.
Ludovica però non si dà per vinta, anzi, si intestardisce nel girare un film storico colmo di spettacolarità, sequenze affollate e scenografie imponenti.
Castellitto fin da subito ci consegna il ritratto di un set cinematografico in cui molto poco funziona, nel quale gli addetti tecnici se la ridono, prendendosi per certi versi gioco della regista Ludovica Pensa e fallendo a loro volta nella costruzione dello stesso set.
Accade che in una scena ritraente un’impiccagione, l’interprete del giustiziato cominci a rantolare, soffrendo realmente. Se in un primo momento sembra di assistere a un making of fittizio, poco dopo rientriamo nel film di Castellitto. Poiché l’attore impiccato non sta recitando. Piuttosto sta soffrendo realmente a causa di un cappio e di una struttura mal messi e mal costruiti; in poche parole, sta probabilmente per perdere la vita.
Fortunatamente qualcuno se ne accorge e l’interprete viene salvato da una morte accidentale, causata ancora una volta da un sistema scorretto, violento, truffaldino e grottesco che fa capo tanto a Ludovica Pensa, quanto al cinema italiano inteso come istituzione.
I predatori, come d’altronde s’impone di fare per l’intera narrazione, esaspera e distrugge nel grottesco e nel dramma ciascun tema trattato, e così avviene per il cinema.
Ludovica Pensa, regista frustrata dall’improvviso stop alle riprese del suo nuovo film, accetta seppur reticente la pausa per ricovero in ospedale dell’interprete, imponendo ai suoi agenti di allontanare l’addetto alla scenografia (e al sistema del cappio) dal suo set e da tutti i set del cinema romano.
Una figura con cui il pubblico certamente non crea contatto, poiché scontrosa e spigolosa, ma che in un primo momento capisce, trovandosi d’accordo con le decisioni prese. Decisioni causate dalla rabbia e ancora una volta dalla frustrazione.
Castellitto torna sul grottesco e lo esaspera ulteriormente.
La crudeltà, il far cinema servendosi nel più profondo significato non tanto degli interpreti, quanto dei loro corpi e dalle maschere da esso generate.