Space Jam: New Legends tra tecnologia e psicologia

Gianluca Colella

Ottobre 23, 2021

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La sensazione che si ha guardando Space Jam: New Legends è quella di un inganno duplice: da un lato, esso si consuma sul piano del già visto ma comunque ancora originale, dall’altro perché sembra un film da nerd pur non essendo un film da nerd.

L’operazione metacinematografica e di rottura della quarta parete avviata dalla Warner Bros si traduce, nel sequel del cult del 1996, in un film estremamente godibile e a tratti da mal di testa.

Con LeBron James a sostituire l’immortale Michael Jordan, il basket e i videogiochi entrano in dialogo in un discorso più ampio fatto di valori, educazione e dialogo tra generazioni diverse.

Il fatto che James interpreti se stesso come padre prima che come atleta è una caratteristica apprezzabile di Space Jam 2, così come è apprezzabile il rapporto generazionale che si crea con gli altri protagonisti.

La dialettica tra reale e virtuale è la colonna portante di questo film, fattore contemporaneo originale ma anche condiviso da diverse opere fantascientifiche: lo stesso tipo di struttura era l’elemento più affascinante di Ready Player One di Spielberg del 2016.

Dal punto di vista astratto e metateorico, autori passati e presenti si sono interrogati sull’intreccio tra reale e virtuale, investigando gli intrecci eleganti e sportivi cui il virtuale e il reale danno vita.

Da Aristotele a Deleuze, passando per Levy e lo psicoanalista Tisseron, diversi sono i livelli di analisi che incorniciano Space Jam. Il rischio di estinzione dei Looney Tunes per mano di Al-G Rhytmo rappresenta uno dei temi fondamentali del film, che introducendo il ServerVerso apre (in realtà chiudendo) la prospettiva dello spettatore rispetto all’universo Warner Bros.

Space Jam: Tra futuro e passato

Il nuovo Space Jam è un capolavoro di originalità e ipermodernità. In che modo virtuale, reale e intelligenza artificiale si legano?

Space Jam: New Legends

La trasformazione di LeBron James in cartone animato è il primo tratto distintivo tra questo sequel rispetto al film originale con Michael Jordan. In quell’opera, la tecnica mista era fissa, con il fuoriclasse del basket inserito in live-action nel mondo dei cartoni animati.

La tecnologia ipermoderna di Al-G, di contro, fagocita sia Dom che suo padre all’interno della realtà virtuale, animata e multimateriale della Warner Bros. Questo inserimento, che nei linguaggi di programmazione si chiamerebbe indentazione, è un processo originale, simile a quello sperimentato in passato da altri autori e che risale all’affascinante originalità di Matrix.

Il tempo delle evoluzioni dei personaggi all’interno di questo sorprendente film rispecchia quello dell’evoluzione dei programmi e delle opere Warner nel corso dei decenni: i riferimenti al Signore degli Anelli, Harry Potter, Rick e Morty e la DC costituiscono una ricchezza per questo film, nella misura in cui permettono alle storie di interagire in un modo tanto fluido quanto rivoluzionario.

La realtà di Space Jam diventa quasi subito sia virtuale che reale, inondando lo spettatore di immagini sensazionali ed emozioni infantili.

Proprio l’infantilismo del film è l’elemento che riconduce ad un passato, un paradiso perduto caratterizzato dalla nostalgia per i grandi titoli del passato.

Il futuro, viceversa, s’impone con la violenta prepotenza con cui il videogioco simulativo rimpiazza il gioco fisico del basket.

Padre e figlio nella lente intergenerazionale

Il nuovo Space Jam è un capolavoro di originalità e ipermodernità. In che modo virtuale, reale e intelligenza artificiale si legano?

Space Jam: New Legends

Una componente radicalmente affettiva si prende la scena nel film, alternandosi nella posizione di figura e sfondo in momenti alternati della narrazione. La mancanza di comprensione tra il fenomenale padre e l’imperfetto figlio, che preferisce i videogiochi al basket, è la testimonianza di un conflitto intrafamiliare estremamente comune.

Pressioni sociali, sogni spezzati e differenze temperamentali animano il rapporto tra il padre e il figlio, appassionando gli spettatori più giovani per mezzo di un comunissimo processo d’identificazione con Dom.

Il piccolo genio vorrebbe diventare un programmatore di videogiochi: sceglierebbe senza problemi un campo estivo di gaming piuttosto che di basket, ma il blasone del padre gli impedisce di formulare questa scelta a cuor leggero.

Quello che Dom desidera è il riconoscimento per quello che è e non per quello che dovrebbe diventare: associazioni ai testi freudiani relativi alla coscienza morale, al Super-Io e alle identificazioni inconsce con le figure genitoriali.

Giocando, prima da solo e poi insieme a suo padre, Dom riesce finalmente ad affermarsi: inizialmente, si lascia influenzare dalle menzogne di Al-G, che lo allontana dal padre per asservirlo ai suoi malvagi scopi di dominio; in un secondo momento, fortunatamente, il piccolo riesce a comprendere che il padre gli ha voluto a suo modo bene anche se pretendeva che diventasse come lui.

La partita finale nel videogioco di Dom, quindi, non è solo un trionfo di estetica, tecnologia e easter eggs (con i personaggi della Warner a fare da pubblico nel ServerVerso), ma anche il momento in cui si verifica il sano e funzionale passaggio di testimone e di riconoscimento dal padre al figlio, in una relazione di attaccamento che non turba, ma contiene e rispecchia Dom dal punto di vista psicologico, affettivo e fisico.

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