Ultima notte a Soho – La perversa sindrome dell’epoca d’oro

Enrico Sciacovelli

Novembre 7, 2021

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Ultima notte a Soho – La perversa sindrome dell’epoca d’oro

“Sono nato nella generazione sbagliata”. Ha un che di già sentito, no?
Più volte vi sarà capitato, magari con amici o con colleghi, di ipotizzare una vita alternativa, in un passato glorioso e affascinante, lontano dalla banalità dell’odierno.
Passare per le strade dell’Antica Roma, banchettare alla corte di Luigi XIV, ponderare il significato della vita con alti interlocutori del Circolo di Vienna…

Un’ipotesi magnifica, ma istigata da un desiderio quasi adolescenziale, approssimativo.
La Belle Époque non è mai così “belle“, e quel lustro imparagonabile decade al mero pensiero. Di conseguenza, ritrovarsi catapultati in una simile realtà potrebbe essere un sogno a occhi aperti…o un incubo vivido come pochi. Edgar Wright lo sa bene.

Diretto dal regista della Trilogia del Cornetto, Ultima notte a Soho sposa il glamour del cinema degli anni ’60 con la densa e paranoica atmosfera tipica dell’horror del decennio sopraccitato e del successivo. Un matrimonio illuminato da colori vivaci, acidi e più sinistri di quanto inizialmente previsto.

Anya Taylor-Joy interpreta la misteriosa Sandie

Sin dal primo istante, Wright attrae lo spettatore in un contesto dominato dalla pop culture e dal sovrannaturale. La silhouette di Eloise Turner (Thomasin McKenzie) si staglia in controluce, rivelando poi un buffo abito composto da vecchi giornali. La giovane donna entra nella sua stanza, soffermandosi su un poster di Colazione da Tiffany, poi sul suo giradischi e infine su uno specchio, abitato dallo spettro della madre. In sottofondo, A world without love di Peter and Gordon risuona.

«Please lock me away
And don’t allow the day
Here inside where I hide
With my loneliness
I don’t care what they say I won’t stay
In a world without love…».

(Peter and Gordon, A world without love)

In pochi minuti, Wright introduce alla perfezione il personaggio di Eloise: povera, ma creativa, devota alle sue fonti d’ispirazione e passione, e tormentata da un precedente trauma. La transizione dalla mite città natale alla brulicante e iperattiva capitale britannica, infatti, non sarà tanto facile. Accettata dal London College of Fashion, ma non dai suoi pari, Eloise si rifugia nelle sue passioni e nella sua nostalgia per gli anni ’60.

Eloise Turner (Thomasin McKenzie) sul treno diretto verso Londra, in “Ultima notte a Soho”

Tanto si è detto del potere della nostalgia, ma Ellie ne sarà investita con una forza senza precedenti. Nei suoi sogni viaggerà nello stesso quartiere di Soho, cinquant’anni prima. Illuminata da luci calde e serenate da noti soul seducenti, la ragazza si rispecchierà nella giovane e accattivante Sandie (interpretata da Anya Taylor-Joy).
Ogni notte il sonno durerà troppo poco, nutrendosi della meraviglia e della voglia di rivalsa di Ellie, ispirata dalla misteriosa figura di Sandie. Mistero che ammalia e che nasconde dettagli cruciali al primo sguardo, caratteristico delle migliori femme fatale.

Wright è sempre stato un regista definito dalle sue ispirazioni e dalla sua conoscenza della storia del cinema. Per Shaun of the Dead, il cinema di George Romero; per Hot Fuzz, i classici d’azione degli anni ’70 e ’90. Ultima notte a Soho danza invece tra Suspiria, Beat girl e il James Bond di Connery, quindi tra le diverse sfumature degli anni ’60 tanto care all’autore britannico.

Tuttavia, un simile viaggio nel tempo potrebbe ricordare quello di Gil Pender in Midnight in Paris, circondato dal prestigio degli anni ’20 e da immense figure letterarie e artistiche. Gil ed Eloise sono entrambi affetti dalla sindrome dell’epoca d’oro, convinti di aver perso il loro momento per la sola colpa di essere nati troppo tardi, in un’era ostile o incurante. Woody Allen ed Edgar Wright potrebbero conversare piacevolmente, ma giungerebbero a conclusioni diverse.

Laddove Allen ritiene che evocare un passato più roseo sia una rincuorante condizione comune di certi sognatori, Wright vede nella nostalgia un lato ben più insidioso, in cui è facile e dolce perdersi. La sua penna – insieme a quella della co-sceneggiatrice Krysty Wilson-Cairns – compone una lettera d’amore alla sua decade preferita, ma indelebilmente macchiata in rosso, di sangue e rossetto. L’oro della sua epoca è sbiadito, scalfito da una realtà più crudele di quanto si voglia ammettere.

ultima notte a soho
Sandie sale sul palcoscenico e strega cantando “Downtown”, canzone chiave in “Ultima notte a Soho”

Così la messa in scena escogitata esplode in una palette che gioca tra luce e ombra, l’aspro viola tra il rosso e il blu, che colora vicende che degenerano nel sovrannaturale e nella paranoia. In questo ambito le due co-protagoniste brillano ugualmente per la loro fragilità, la loro versatilità e la loro forza d’animo.

La neozelandese McKenzie, già sugli scudi in JoJo Rabbit, si conferma come una solida e promettente scream queen del panorama odierno. Il resto del cast sostiene perfettamente la protagonista, dall’enigmatica Taylor-Joy a ospiti d’eccezione, come Terence Stamp e la compianta Diana Rigg, nota ai più come Olenna Martell.

La trama si sviluppa in una spirale discendente, giocando con i presupposti del pubblico e del genere in modo audace ed elegante. Tipicamente i film di Edgar Wright offrono spunti per giustificare un rewatch, e Ultima notte a Soho non fa eccezione.

La fotografia di Chung Chung-hoon (Oldboy) e la colonna sonora scandita da gemme nascoste della musica pop e soul arricchiscono una Londra ammaliante, ma pericolosa.
La città emerge come un personaggio a sé stante, con una propria volontà e un’anima, anche attraverso le tante frecciatine di Wright, non troppo lontane dalla Trilogia del Cornetto.

ultima notte a soho
Eloise torna da una festa in maschera, terrificata

I titoli di coda scorrono su diverse strade deserte, fotografate durante la pandemia di Covid-19, sotto una luce macabra, ma lontana dagli spettri della pellicola. Le strade del quartiere, giustamente, sono serenate dall’omonima canzone Last night in Soho.

Pur essendo una canzone d’amore, i violini e le chitarre incessanti le donano un tono sinistro e opprimente. Una metafora perfetta, di conseguenza. Una città incantevole e senza tempo, ma capace di divorare innumerevoli anime. L’epoca d’oro è passata, o non è mai esistita, ma un simile fascino è impossibile da reprimere.

«You came into my life like rain upon a barren desert
One smile and I was born again
I felt sure it wasn’t too late
I’d find strength to make me go straight
I had love and threw it away
Why did they lead me astray?
For last night in Soho I let my life go
…».

(Dave Dee, Dozy, Beaky, Mick & Tich, Last night in Soho)

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