Basta scorgere il catalogo Netflix per comprendere come il pubblico sia affascinato dalla psicologia dei serial killer. Film, serie tv, documentari… i media indagano e sviscerano il Male quotidianamente, oscillando tra sana curiosità e pornografia dell’orrore. Qualche settimana fa, è uscita sulla piattaforma la serie tv Dahmer- Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, creata da Ryan Murphy e Ian Brennan.
La serie ha avuto un successo clamoroso, diventando uno dei prodotti più visti degli ultimi anni. Ma cosa differenzia Dahmer da altri prodotti che trattano di serial killer? Che cosa ha reso la serie così unica nel suo genere?

Dahmer inizia il racconto in medias res, portando sullo schermo l’arresto del serial killer (interpretato da Evan Peters). Seguendo il suo modus operandi, Jeffrey Dahmer aveva conosciuto un ragazzo in un locale gay. In seguito lo aveva attirato in casa sua, offrendogli da bere. Dopo averlo drogato, lo aveva minacciato con un coltello, con l’intento di ucciderlo. Per fortuna, il giovane aveva trovato il coraggio e la forza di fuggire, chiedendo aiuto. La polizia era arrivata sul posto, scoprendo in casa di Dahmer orrori indicibili: foto di corpi smembrati e, dopo accurate ispezioni, parti di vari cadaveri.
Quando viene interrogato dalla polizia, Jeffrey Dahmer confessa immediatamente i suoi crimini e afferma: «Credo di essere sempre stato così». Da quel momento la serie accompagna lo spettatore nell’infanzia e nell’adolescenza di Jeffrey. Viene, in particolare, approfondito il problematico rapporto del giovane con i suoi genitori. La madre Joyce (Penelope Ann Miller) soffre di una grave depressione, che la porta a ignorare completamente il figlio e ad abbandonarlo quando ha diciotto anni.
Il padre Lionel (Richard Jenkins), al contrario, cerca di stare accanto a Jeffrey a suo modo, ma compie degli errori probabilmente determinanti per l’evoluzione della psiche del ragazzo. In particolare, Lionel asseconda il forte e malsano interesse del figlio per lo smembramento degli animali, accompagnandolo lui stesso nelle sue “cacce”. In più, rifiuta di accettare l’omosessualità di Jeffrey, costringendolo così a nascondere la sua natura con vergogna.
Lionel Dahmer, interpretato da un intenso Richard Jenkins, è forse il personaggio più complesso e toccante dell’intera serie.

Nell’indagare l’origine del Male spesso si fa l’errore di attribuire superficialmente delle colpe. Certo, il determinismo psichico di Cesare Lombroso in base a cui una persona nasce cattiva è superato da tempo. L’ambiente in cui un soggetto cresce, in primis la famiglia, è determinante per la sua evoluzione psichica. Posto di fronte agli orrori commessi dal figlio, Lionel comprende di aver sbagliato il modo di rapportarsi con lui. Capisce che, probabilmente, se lo avesse ascoltato maggiormente le cose sarebbero andate diversamente. Questa consapevolezza lo fa sentire profondamente in colpa, lo fa soffrire. Ma si può davvero incolpare il padre o la madre di Jeffrey per quello che è diventato? E poi, è così importante trovare per forza un colpevole?
Con il passare degli anni Jeffrey Dahmer inizia a sviluppare ossessioni sempre più violente. Si sente molto solo, e cercare la compagnia di altri uomini non gli basta. Li vuole possedere completamente. Non si limita a ucciderli, ma compie dei macabri rituali con i loro cadaveri, arrivando persino a mangiarli. Fortunatamente la serie non si concentra troppo su momenti splatter o particolarmente violenti, ma preferisce analizzare la psicologia del personaggio, le sue emozioni e il suo modo di rapportarsi con le vittime.
Dahmer riesce infatti nel difficile intento di delineare un preciso ritratto del killer, senza per questo tentare di assolverlo e giustificarlo. Ci viene mostrato un essere umano profondamente malato, consapevole delle sue perversioni, ma al contempo intelligente e calcolatore. L’attore Evan Peters regala una performance attoriale magistrale. Dopo aver già mostrato il suo talento recitativo – soprattutto in American Horror Story e Mare of Eastown – Peters indossa alla perfezione gli scomodissimi panni del serial killer, immedesimandosi completamente nella sua complessa personalità.
Alcune polemiche che hanno colpito la serie si sono concentrate sul fatto che gli autori hanno presumibilmente umanizzato un serial killer. Ma che significa “umanizzare”? Pensare che Jeffrey Dahmer fosse un mostro è confortante. Ci fa circoscrivere il Male a un solo individuo, ignorando il problema perché esso non ci appartiene.

E risiede proprio in questa riflessione la punta di diamante della serie di Murphy e Brennan. Anziché analizzare unicamente i problemi psicologici di Jeffrey Dahmer, gli autori decidono di concentrarsi sul contesto sociale. Proprio come ogni persona, anche un serial killer vive all’interno di una società e ne è inesorabilmente influenzato. Dahmer compì i suoi crimini in un’America profondamente bigotta, razzista e omofoba, che gli ha permesso di continuare ad agire indisturbato per anni. L’uomo prendeva di mira prevalentemente giovani gay di colore, scelta che gli permetteva di passare inosservato. Le voci degli afroamericani, degli omosessuali, dei cosiddetti ultimi della società venivano – e in parte vengono tuttora – completamente ignorate.
Emblematico da questo punto di vista il personaggio di Glenda Cleveland, la vicina afroamericana di Jeffrey, interpretata dall’eccezionale Niecy Nash. Per mesi Glenda percepisce un forte e nauseante odore provenire dall’appartamento di Jeffrey. Sente quotidianamente delle urla di dolore, delle grida d’aiuto. In più – in una delle scene più agghiaccianti della serie – assiste a una strana interazione tra il suo vicino e un ragazzino ferito e privo di sensi. Chiama la polizia più volte, ma viene completamente ignorata. Non è un caso che l’episodio dedicato a Glenda si intitoli Cassandra; proprio come la sacerdotessa di Apollo, Glenda avverte continuamente la presenza del mondo del Male, ma non viene ascoltata. Le autorità non sono interessate a sentire le voci degli ultimi, e permettono così a un serial killer di continuare a fare vittime.

Diciassette giovani uomini. Diciassette vite stroncate dalle mani di Jeffrey Dahmer, ma anche dall’ignoranza e dalla cecità di un sistema che non ha saputo tutelarle.
Uno dei grandi pregi della serie è infatti proprio quello di dedicare spazio alle vittime. Troppo spesso, quando si parla di crimini particolarmente efferati si fa l’errore di concentrarsi unicamente sulla figura del carnefice. Basta pensare a quanto siano celebri la maggior parte dei serial killer, ma vi sia completo disinteresse per le storie delle persone che hanno ucciso e ferito. Proprio come già Murphy aveva fatto in American Crime Story – L’assassinio di Gianni Versace (2018), anche Dahmer dà dignità al dolore delle vittime e delle loro famiglie.
Tornando alla domanda iniziale, cosa distingue Dahmer da altre serie sui serial killer? La capacità di non soffermarsi semplicemente sull’orrore compiuto da un uomo, ma di analizzare a tutto tondo lo specifico contesto in cui esso si è verificato. La profondità di analizzare un Male che in realtà è estremamente umano, proprio di un singolo individuo ma anche di un intero sistema.

C’è una particolare frase pronunciata dal personaggio di Glenda che forse riassume il messaggio della serie: «Affinché non ricapiti mai più».
Jeffrey Dahmer aveva provato a confessare al padre le sue pulsioni, ma era stato ignorato. Era stato in prigione per un reato sessuale, ma non aveva ricevuto adeguato supporto psicologico. Glenda aveva più volte chiamato la polizia, ma le sue segnalazioni non erano state prese seriamente. Dahmer si sofferma su questi dettagli, con la triste consapevolezza che le cose sarebbero potute andare diversamente. Mostrare queste informazioni, che vanno ben oltre la semplice e scontata condanna del “mostro”, è fondamentale. Affinché non ricapiti mai più.