Rumore Bianco era un disastro preannunciato.
Rendere racconto cinematografico la poesia fatta a prosa che è il romanzo di Don DeLillo, Rumore Bianco, sembrava un’impresa irrealizzabile. Nessuno, infatti, aveva osato raffigurarselo sullo schermo. Prima di Noah Baumbach nessuno aveva mai intrapreso la tortuosa strada dell’adattamento, del pensare per immagini filmiche la profondità delle riflessioni delilliane.
La mancata trasposizione non è tanto conseguenza di assenza di opportunità o volontà. Essa è più il risultato di una sorta di protezionismo congenito all’opera letteraria e alla sua intrinseca impossibilità di farsi cinema.

Ciò che è importante evidenziare in questa sede, è la persistente presenza di Rumore Bianco nell’immaginario comune e, soprattutto, nella cultura americana. Sottolineando, in questo modo, le pressanti – e pesanti – premesse che Baumbach avrebbe consapevolmente ereditato. È il 2019 quando, come riporta il New York Times, il regista legge per la seconda volta il romanzo di DeLillo e dice di ricordarlo ancora vividamente. Questo sintomo del marcato segno che ha lasciato, e continua a lasciare, a intere generazioni.
Dati questi preamboli, per muovere una critica sincera e validante alla pellicola, per chi aveva letto il libro era necessario – anche se complesso – osservarlo con occhi scevri di ogni rimembranza letteraria. Al contrario, per chi ancora non lo aveva letto, era opportuno non lasciarsi influenzare dalle aspettative generali e, soprattutto, da ciò che aleggiava intorno a Rumore Bianco. La sua mitizzazione, appunto.
Un’impresa impossibile, dal momento che Baumbach sceglie un adattamento fedele al romanzo, o quantomeno strutturalmente identico.
Rumore Bianco, infatti, attraverso una suddivisione in tre atti racconta le vicissitudini di una famiglia americana e di come quest’ultima faccia fronte alla paura della morte.
Il nucleo in questione è composto dagli elementi più disparati. C’è Babette, una madre dai riccioli d’oro sempre sull’orlo di una crisi esistenziale, e c’è Jack Gladney, un professore universitario turbato dal confronto con l’altro. Con loro, Heinrich e Steffie, figli di Jack, Denise, figlia di Babette, e il piccolo Wilder, figlio di entrambi. I due genitori, una coppia del tutto peculiare, vivono il loro quarto matrimonio durante gli anni ‘80 di un’America dai colori vivaci, dove il consumismo pare essere l’unica e ovvia soluzione a tutti i mali.

La vita in Ohio scorre serena, Jack continua a tenere il suo corso di Studi Hitleriani, Babette si destreggia tra sport e sedute terapeutiche con anziani, i ragazzi esplorano curiosi la vita. Fino all’Evento Tossico Aereo. In seguito a un incidente ferroviario, infatti, viene liberata una sorte di nube pericolosa che minaccia la salute di chi viene esposto ad essa. I Gladney dovranno fronteggiarne la minaccia e riequilibrare di conseguenza le loro esistenze, il loro credo.
Jack: «E se la morte fosse nient’altro che un suono?»
Tale condensazione stilizzata della trama non rende certo giustizia alla densità narrativa concentrata nel film di Baumbach.
Perché è di questo che si tratta.
Il punto nevralgico – nonché spinoso – dell’intera pellicola è, forse, proprio la corposità della narrazione che, alla fine, risulta eccessiva e forzata, sviscerabile soltanto grazie a una seconda visione.

Di primo acchito, infatti, Rumore Bianco appare disordinato, inconcludente. Un quadretto dai bei colori pieno di tutto e niente, scollato e poco chiaro dove i personaggi si muovono confusamente senza direzione.
Rimanendo comunque problematico, con una seconda rilettura, il film è in grado di schiudersi innanzi occhi vigili e volenterosi di comprendere. Prestando attenzione ai fittissimi dialoghi saturi di informazioni e dettagli – cifra stilistica di Baumbach – è possibile osservarne l’idea strutturale alla base.
Il regista, infatti, opta, come menzionato pocanzi, per una trasposizione del romanzo abbastanza fedele. Ne risulta, per forza di cose, un simposio concentrato di postmodernismo che su un piano visivo, però, non rende tanto quanto sulla carta.
L’impressione è, pertanto, che soltanto chi è pratico di DeLillo possa effettivamente guidarsi in un mondo balordo e ai limiti del surreale come quello di Rumore Bianco.
Il terreno in cui Baumbach sembra muoversi con più scaltrezza e sicurezza è la costruzione di un crescendo emotivo interno alla scena (vedi Storia di un Matrimonio). O, più propriamente, l’esplorazione degli ambienti reconditi della psiche umana, anche quelli più bui e indesiderati. Rumore Bianco, infatti, perlopiù, tenta di operare in questa direzione, mostrare il personaggio spoglio di ogni tipo di sovrastruttura. Dei topos più puri dell’essere umano, nudo innanzi alle sue paure primordiali.

Babette: «Io voglio morire per prima».
Jack: «Mi sembri quasi impaziente».
Babette: «La vita senza di te sarebbe insopportabilmente triste e piena di solitudine. Soprattutto se i nostri figli fossero grandi e vivessero lontani in qualche altra parte del mondo. Siamo al sicuro in questo momento. Almeno fino a che i nostri figli sono qui con noi. Loro hanno bisogno di noi».
Jack: «La tua morte lascerebbe un abisso nella mia vita».
Babette: «La tua morte sarebbe più di un abisso. Sarebbe una voragine».
Babette, in questo senso, veste i panni del prototipo delilliano per eccellenza. Qualcuno che non riesce ad esorcizzare un terrore esistenziale derivante da una concezione intimorita del vivere, convinto di una catastrofe imminente. Per tale motivo, ricorrente nel film – come nel romanzo – la costante ricerca di Wilder da parte di Babette, che vediamo spesso chiedersi “Dov’è Wilder?”.
Infatti, se la madre rappresenta tale prodotto inquieto della società contemporanea, il figlio più piccolo è la purezza. Così lontano dal concetto di morte, Wilder non è stato (ancora) contaminato da un sentimento come quello dell’angoscia esistenziale. Motivo che lo lega a Babette, che ne va alla ricerca quando sente il bisogno di avvicinarsi alla vita.
Murray: «La famiglia è la culla della disinformazione».
Jack: «Ci deve per forza essere qualcosa nella famiglia che genera tali errori materiali».
Murray: «I fatti oggettivi minano la nostra felicità e la nostra sicurezza».
Babette: «Penso sia per via della troppa intimità, il rumore, il calore dell’esistenza».

La faticosa decodifica operata dallo spettatore coincide con la comprensione del vero obiettivo del regista: un costrutto narrativo bizzarro volto alla rappresentazione di un mondo in preda alla paura, che si consola nel trionfo del consumismo più sfrenato.
Perché sì, il Rumore Bianco di Baumbach è proprio questo: un panico generale esorcizzato dal supermercato. Tale dimensione, infatti, si eleva a entità dall’importanza chiave, in grado di disperdere le preoccupazioni mondane e le disperazioni esistenziali.

Ecco che allora il finale che rimbomba di LCD Soundsystem acquisisce senso, anche se diverso dal significato attribuito da DeLillo nel romanzo. Un tentativo di esorcizzazione collettiva che esplode e si realizza felicemente nel consumismo.
In mezzo a tutti quei colori, tutti quei prodotti, quelle insegne luminose, noi esseri umani, così deboli innanzi un’idea che non riusciamo a concepire – come quella della morte – ci consoliamo così. Mentre il rumore bianco resta sempre sotto traccia, noi balliamo e cantiamo.