Il cinema indipendente americano degli anni Novanta nel post reaganismo. Ragazzi persi nell’estetica del brutto, specchio di una periferia abbandonata a sé stessa.
Sarebbe riduttivo dare tutta la colpa alla politica, eppure.
Novembre 1992. George Bush (padre) non può che essere riconfermato come presidente degli Stati Uniti in carica. La cantilena del “Four more years” si intona tra le strade di quella America che era appena uscita vittoriosa dalla Prima Guerra del Golfo e che usciva a testa alta anche da un edonistico e autoreferenziale decennio degli 80’s. Sotto la Mason Dixon Line si continua a votare “rosso”, con una retorica classista che attira i voti nelle comunità bianche, di fisionomia conservatrice.
Ma per i red hats, che alle passate presidenziali avevano spazzato via Dukakis, qualcosa sta per andare storto.
Quel “qualcosa” prende il nome di Ross Perot. E’ un milionario, viene dal Texas (come i Bush) ed è un imprenditore nel settore dell’elettronica, in grandissima ascesa. Da perfetto antesignano di Trump, gli mancava soltanto una cosa: candidarsi alla Casa Bianca. Scende in campo, senza alcuna esperienza ma con il gran desiderio di “rompere le scatole” e la cosa gli riesce benissimo. Prende 18 milioni di voti, la maggior parte dei quali tolti ai Bush e Bill Clinton diventa il nuovo presidente degli Stati Uniti. Uno “di sinistra” che piomba a Washington in questo modo rocambolesco, dopo una decade caratterizzata da una politica dallo stile persuasivo totalmente anti-dem, fa drizzare i peli in quel di Washington. Per chi commentava la vicenda al telegiornale, il reaganesimo finiva ufficialmente quella sera.

Perot parlava di periferie da riabilitare, di progresso tecnologico, di internet consentito a tutti e del rendere l’America un paese senza disuguaglianze. Aveva davvero fatto colpo tra i giovani hillbillies, coloro che avevano partecipato all’epoca consumistica del presidente-attore solo per sentito dire. Ma fu solo un’illusione. Divenne il porta-borracce della sinistra e la rabbia finì per sfociare nelle comunità dei suoi giovanissimi elettori, frastornati dalle promesse sfumate del suo “terzo polo”.
La tensione genera il caos tra i ragazzi
Nell’humus di quel malcontento di chi queste elezioni le ha perse, nei sobborghi di una Florida isolata, un fatto di cronaca sconvolge l’opinione pubblica. Siamo vicini ad Orlando, se sei un ragazzino di buona famiglia ed è il fine settimana, forse sei a vedere i Magics, con Shaquille O’Neal appena preso ai draft. Se invece abiti nei quartieri della working class di Weston e stai ascoltando i notiziari, allora saprai anche chi è Bobby Kent.

Nella terra che non sembra più quella delle grandi opportunità, due adolescenti lavorano in un fast food nella zona delle spiagge. Bobby Kent, rampollo di una famiglia iraniana, è un bullo che si distrae dal peso delle responsabilità mantenendo un basso profilo e frequentando gli “inferiori”. L’altro, Marty Puccio, è un italo-americano di religione cattolica, insicuro, remissivo ma allo stesso tempo stufo di quell’amico che sta diventando un tiranno.
In un pomeriggio sbagliato, una folta schiera di ragazzi si incontra in un Pizza Hut per trovare la soluzione al problema: uccidere il bullo e farla franca.
La nascita dei ClarKorine
Questa storia ci mette quasi dieci anni prima di arrivare alle orecchie di Larry Clark: nel 1993 aveva appena compiuto 50 anni e stava girando il suo primissimo lavoro dietro la macchina da presa, un cortometraggio sul cantante Chris Isaak (Solitary Man). Era perlopiù fotografo ed in questo era anche tra i migliori in circolazione. Si era fatto il Vietnam, era stato dentro per tentato omicidio e pubblicato dei libri di fotografie dove immortalava dei ragazzi “viziati” dalle loro cattive abitudini, documentando i fatti con una spietata crudezza forse mai vista prima nel campo delle arti visive.
Destino vuole che in quel periodo conosce un giovanissimo cineasta che a conti fatti lo spronerà a dare il massimo proprio nel campo della regia. In un singolare primo ballo tra due debuttanti, Harmony Korine gli regala una sceneggiatura di grande effetto: Kids. Il film esce nel 1995, siamo nella Grande Mela che appartiene a Spike Lee: nel cast non c’è un singolo attore di professione. Leggenda vuole che Korine uscì di casa e fermò letteralmente i primi ragazzi trovati per strada. Tra i tanti, Rosario Dawson e Chloë Sevigny.

Di cattivi ragazzi ce ne sono anche in Francia
La pellicola viene addirittura presentata al 48° Festival di Cannes, nell’anno in cui il premio alla regia se lo aggiudica un altro artista alle prime armi che parla di adolescenze difficili nelle banlieue parigine: il direttore d’orchestra è Mathieu Kassowitz, il film è La Haine. Nel frattempo i riflettori sul giovane sceneggiatore si erano già accesi, e Korine partecipa ad alcune puntate del Letterman Show, in perenne stato confusionale. Letterman vorrebbe strangolarlo in diretta e alla fine lo caccia definitivamente dal programma quando lo trova nel camerino di Meryl Streep mentre fruga nella sua borsetta.
Bully, una feroce vendetta tra ragazzi
Tornando a Larry Clark, nel 2000 il suo curriculum da cineasta si era allungato di un paio di lavori. Uno spot per la televisione e una produzione da un milione di dollari che coinvolgeva qualche star come Melanie Griffith (Another day in paradise). Quando gli capita sotto tiro il libro Bully: A true story of High School Revenge capisce che narrare la vicenda di Orlando gli avrebbe consentito di raccontare ancora una volta il rovescio del sogno. Quello che invece in quel periodo veniva costantemente sospinto dalla nuova linea di entertainment data dalla serialità. I muscoli di Baywatch, le gioventù patinate di Beverly Hills 90210 e un modello di ragazzi raffinati come in Dawson’s Creek.
L’idea di un paese che si leccasse le ferite pubblicamente e che ammettesse di avere dei problemi nell’educare la Generazione Y cozzava tremendamente con quel modello di perfezione a tutto tondo mostrata già qualche anno prima.
Gli gentili alunni del Breakfast Club e di Una pazza giornata di vacanza tratti dalle sceneggiature alla John Hughes che stavano finendo nel dimenticatoio.

E in quegli anni Korine scelse l’attore di Hughes per eccellenza, un Macaulay Culkin già dimenticato da tutti, per dirigerlo nel discusso (e discutibile) videoclip di Sunday dei Sonic Youth. Il fotografo e lo sceneggiatore non se la cavano male quando c’è da fare i casting: per Bully, Clark riprende Leo Fitzpatrick da Kids, un giovanissimo Michael Pitt che aveva già lavorato con Gus Van Sant, un Brad Renfro pupillo di Joel Schumacher e Nick Stahl, reduce da La Sottile Linea Rossa e Generazione Perfetta e che finiva spesso sulle copertine dei Cioè.
Le giovani star del cinema progettate per durare poco
La macchina da presa segue le rughe di espressione di questi giovani diavoli da molto vicino, quasi a voler entrare nelle loro teste dove sobbolle il risentimento verso il ragazzaccio da far fuori. Nella vita reale qualcuno è uscito, qualcun altro è stato riabilitato, Marty Puccio sta ancora scontando la condanna a vita nel carcere. Sorte diversa per chi lo interpreta nel film: Brad Renfro sarebbe scomparso pochi mesi dopo aver girato Bully emulando l’attore protagonista di Kids, Justin Pierce.
Entrambi morti a 25 anni, in circostanze sospette tra suicidio e overdose. Il mondo aveva appena conosciuto la strage della Columbine High School, con Harris e Klebold artefici del massacro dei loro compagni di classe. Si iniziavano a scorgere i segni di quella mala educacion che l’America non sapeva gestire. Quella cattiveria e quella commistione tra gioventù e morte furono campanelli d’allarme per il futuro di una nazione che continuava a perdere i suoi idoli. Anche nella finzione.
Ad esempio Henry Thomas, il bambino di E.T., recita in 11:14 Destino fatale, dove interpreta un guidatore ubriaco che occulta un cadavere. Sua “sorella” Drew Barrymore è la prima a lasciarci le penne nell’episodio uno della saga di Scream. Seguendo la linea ormai tracciata di un cinema indipendente che si vomitasse addosso e che facesse storcere anche i nasi, Clark e Korine (che girerà poi altri film sull’estetica del brutto, tra cui Spring Breakers si ritrovano l’anno dopo a dirigere un ennesimo film che rimane una piccola perla di un genere difficilmente classificabile, ovvero Ken Park.
Ancora insieme per un altro teen movie
Intanto Korine si era spostato anche dietro la telecamera con lo sperimentale film Gummo e riuscendo addirittura a dirigere Werner Herzog in Julien Donkey Boy. Eppure, il suo meglio sembra darlo quando c’è anche Clark di mezzo. Quel film non poteva che uscire nella settimana angosciante dell’11 settembre. La primissima scena fotografa il suicidio di un ragazzino che si piazza al centro della pista da skate, si punta prima una telecamera addosso e poi una pistola.

La sua morte segna, solo di striscio, la vita già sgangherata della sua combriccola. C’è chi si pompa in palestra, chi si ubriaca, chi intrattiene relazioni con la suocera, chi ammazza i propri nonni, chi viene violentato dagli stessi genitori. Non auguro a nessuno di trovare questo film in tv mentre si è in compagnia, ma questa piccola opera finisce per essere necessaria. Un grottesco ritratto in cui la perdita della speranza trasforma la noia in perfidia, l’ignoranza in violenza e la salvezza è solo nei poster dei film attaccati alle pareti.
Ragazzi persi in quei sobborghi dove Reagan forse non ci è nemmeno mai passato. Strade in cui i padri avevano assaporato la sensazione di poter vincere domani, come Daniel San e di quei figli senza bussola che non avevano i mezzi per essere come Luke Perry.