Mindhunter
La curiosità porta l’uomo a immergersi nell’oceano più blu, durante la notte più buia, vivo nel cercare la sua oscurità.
La condanna dell’essere umano è l’imprescindibile perpetuo conflitto tra ragione e pulsione, controllo ed emozione. Ognuno ha i suoi metodi, consapevoli e non, per canalizzare ciò che eccede da tale conflitto psichico, ognuno ha le sue nevrosi, volenti o nolenti.
Esistono due tipi di persone nel mondo: chi è affascinato dalle caverne e chi costruisce muri per impedirne l’entrata.
Non sappiamo davvero quale tipo di persona siamo, fin quando, seppur avverrà nella nostra vita, ci troviamo a lottare con i demoni. I mostri non esistono, ma possono essere pensati, ma non è questa tutta la verità.
I mostri esistono, perché c’è chi sceglie di non limitarsi a pensarli.
Holden Ford, interpretato da Jonathan Groff, non ha idea di cosa significherà per lui conoscere il male.
Mindhunter ci proietta in un mondo non troppo vecchio, eppure così lontano, dove la morale americana era rigida nel suo condannare i killer come esseri appartenenti a un’altra categoria, rendendoli meno umani per non viverne la follia. È la morale escludente dell’eliminare il diverso, scomodo, con un ostracismo culturale a tal punto radicato da non poter essere, neppur ipoteticamente, contraddetto.
Inizialmente ci sembra un limite, un bigottismo, ma lo è davvero?
L’uomo non può fare a meno di contrastare i vincoli da egli stesso imposti, consapevole che la Terra non sarà mai piatta.
Così, il nostro protagonista, agente dell’FBI, ancora sufficientemente ingenuo per poter assimilare nuovi punti di vista, ancora sufficientemente superficiale per poter scegliere quale ignoto indagare, stravolge, pian piano, il divieto assoluto per sperimentare una nuova forma di ricerca: studiare la psiche dei killer più inquietanti e scoprire cosa realmente definisca il loro agire.
Ecco che un sussurro annuncia il maremoto.
Non è sempre un movente standard a far compiere un crimine: dietro ogni gesto si nasconde un rituale, una logica sensata, seguita dalle necessità di uno psicotico.
L’America di Charles Manson deve fare i conti con una nuova era, dove l’uomo è più vagabondo che mai, dove la potenza mentale non trova sanità e né luoghi dove compiersi in favore dell’umanità. È una società dispersa dove le frustrazioni si accumulano, si riversano le une con le altre, dove non ci si ritrova più in ideali perseguibili; il bene, o per lo meno un surrogato razionalmente accettabile di esso, svanisce, e il posto vacante è per diritto del caos più implacabile, quello delle pulsioni più primordiali.

«Quando analizziamo la personale strappiamo la maschera e scopriamo che quello che sembrava individuale, alla base è collettivo».
(Carl Gustav Jung)
Ed ecco che ci ritroviamo a guardare l’incredibile viaggio dei protagonisti di questa serie tra cui ricordiamo Bill Tench, agente dell’Fbi capace di vedere cose invisibili agli altri e la dottoressa Wendy carr, intrpretata da Anna Torv, quinta essenza del metodo di ricerca psichiatrico.
Qui i nostri occhi si spalancano nell’osservare la lucidità di Ed Kemper, la sua intelligenza così connessa e sensata, la sua tranquillità, e come tutto questo si contrasti, con una forza di cui solo nelle più recondite parti delle nostre menti intuiamo l’incredibilità, con la furia omicida e l’eccitazione del macabro di cui egli è pervaso.
E così, nello svilupparsi della serie, siamo spettatori del pervadersi dell’inquieto umano. Si tratta di quella strana vibrazione che si insinua dietro il nostro collo, sfiorando con una delicatezza rabbrividente la nostra nuca, e ci pone dinnanzi a un bivio che temiamo anche solo di ipotizzare: fascino o terrore.
Mindhunter, però, ci salva in corner, più la catarsi si fa ingestibile, più vediamo manifestarsi in Holden Ford l’ossessione per la follia, perché questa è illimitatamente potente, si nutre di pulsioni degenerate, ma non represse.
Ed Kemper è uno psicopatico, e la psicopatia è una vera è propria patologia psichiatrica, ove, anche neurologicamente parlando, non possiamo provare emozioni, dunque non possiamo essere sovrastati dall’irrazionale, possiamo esserlo senza subirlo, così come gli altri intervistati hanno le loro altre patologie.
Holden, al contrario, non è uno psicopatico, e può fare del suo ego ossessionato un’arma di resistenza a tale tsunami.

Dunque, ogni uomo vaga in se stesso, e se stesso vaga nel mondo. Spesso non ne prendiamo neppure coscienza, non conosciamo le nostre nevrosi, né la logica del nostro agire spesso sui generis. Ogni uomo ha un suo grado di follia, derivabile da mille varianti, da mille tasselli di una personalità definitasi per mille ragioni, innate o empiriche.
In un silente patto umano, universalmente riconosciuto, senza neppure saperlo, viviamo in una finzione di normalità nella quale canalizziamo le nostre particolarità, ricche di piccole follie.
Ci sono casi in cui scopriamo questo arcano, casi in cui demoliamo il muro per entrare nella caverna. Ci ritroviamo ad affrontarle per superare un nostro malessere, capendo che siamo succubi di ossessioni, disturbi umorali che, inconsapevolmente, si celano dentro di noi.
E poi c’è un altro caso, di colui che indaga la follia altrui. Un caso rischioso, poiché egli non sa che, nel mentre, dietro i suoi occhi tutto viene assimilato: orrore e fascino si gonfiano fino al momento della loro esplosione.




