Di che cosa parla Arrival?
Dell’arrivo degli alieni? Sì certo.
Della possibilità di instaurare una comunicazione con esseri che provengono da un’altra galassia? Anche.
Dell’importanza di un certo tipo di linguaggio che ti permette di esperire il tempo in una modalità totalmente nuova e diversa? Decisamente.
Ma c’è qualcosa di più in Arrival, la tematica che si nasconde dietro questo mondo fantascientifico è una di quelle più umanistiche per eccellenza. La domanda che si pone la nostra protagonista Louise (Amy Adams) è appunto: «Se sapessi che tuo figlio morirà, e non potessi fare nulla per evitarlo, avresti comunque un figlio?.»
Una tematica che deve intendersi esistenzialista, una di quelle più umane tra tutte.
La vicenda si apre con l’arrivo di questi alieni sulla Terra, in dodici postazioni apparentemente casuali. L’obiettivo principale sarà quello di comprendere qual è lo scopo del loro approdo sul nostro pianeta, cosa cercano, da dove vengono, cosa vogliono.
Per avere la possibilità di comprendere e poter comunicare con gli alieni, il governo degli Stati Uniti si rivolge a una linguista di fama internazionale.
Ed ecco che entra in scena Louise, che proverà a instaurare un rapporto con queste entità sovrasensibili, delle quali non si conosce assolutamente nulla perché l’astronave con la quale sono sbarcati sul nostro pianeta, il Guscio, (che richiama, molto intelligentemente, al monolite kubrickiano), ha una composizione chimico fisica che ci è sconosciuta. Le informazioni sugli alieni piano piano aumenteranno, e verranno definiti Eptapodi vista la loro struttura fisica.
Fin dai primi contatti comprendiamo come il loro linguaggio abbia delle caratteristiche profondamente diverse dalle nostre, perché non c’è correlazione tra ciò che si dice e ciò che si scrive. A differenza della nostra lingua umana scritta, la loro scrittura veicola un significato e non rappresenta solo un suono. Non ha una direzione in avanti o in indietro, ma è presa come unità.
Ma gli elementi su cui la nostra riflessione filosofica rispetto ad Arrival si sofferma sono molteplici e interconnessi. Proviamo ad addentrarci in essi.
Arrival: Linguaggio come Premessa e Conseguenza dell’Umanità
Nella prima parte del film iniziamo ad afferrare l’immensa importanza del linguaggio, che bisogna tenere ben distinto dalla semplice comunicazione, come può essere quella animale. Con le iniziali interazioni tra Louise e gli Eptapodi, lo spettatore comincia a realizzare come il linguaggio sia essenzialmente quello che siamo e ci permette di essere chi siamo.
Il linguaggio è da intendersi come la base del pensiero di una civiltà, come la base di qualsiasi cosa possiamo immaginare e pensare. Le parole possono rappresentarsi come dei mattoni che insieme costituiscono concetti, che a loro volta danno vita a idee. Tali permettono la presenza di opinioni, la consolidazione di certezze, la possibilità di esprimere sentimenti ed emozioni. Il linguaggio è da considerarsi come la nostra singolarità che ci differenzia da qualsiasi altra forma vivente. L’uomo inteso come animale con logos.
Il celebre filosofo novecentesco, Martin Heidegger, nella Lettera sull’umanismo parlerà del linguaggio come la casa dell’Essere, dove quest’ultimo può manifestarsi.
Il film richiama esplicitamente a una teoria che riconosce un enorme dipendenza tra linguaggio e pensiero. Mi riferisco all’ipotesi di Sapir-Whorf, secondo cui si considera la lingua che parliamo come determinante per il modo in cui pensiamo e il modo in cui vediamo il mondo. La nostra lingua potrebbe quindi plasmare i nostri processi mentali, determinare o limitare le idee che potremmo avere e i pensieri che potremmo pensare.
Infatti, Martin Heidegger era convinto che la metafisica occidentale fosse inscritta nella nostra grammatica, che quindi la presenza di questo tipo di metafisica era inevitabile vista la struttura grammaticale della lingua europea. Questo significa che ciò che vediamo, pensiamo o sperimentiamo è in larga parte influenzato dalle modalità linguistiche della nostra comunità che determinano certe scelte di interpretazione.
I padri linguisti di questa teoria riportarono molti esempi a supporto della loro ipotesi. Il più rappresentativo, perché coerente e analogo con la tematica del film, è la differenza della struttura linguistica tra la lingua occidentale e quella di certi antichi nativi d’America, gli Hopi.
Nella nostra lingua la struttura del tempo ha una dinamica molto particolare, noi concepiamo il tempo in maniera lineare, con un prima e con un poi. Ci immaginiamo il tempo come se fosse una linea sulla quale poggiare gli eventi della storia. Distinguiamo così un passato già accaduto, un presente e un futuro ancora vuoto.
Il linguista Whorf, analizzando la lingua degli Hopi noterà come, a differenza della nostra, il tempo non è da concepirsi univocamente in maniera lineare, infatti ipotizzerà che per questa antica popolazione la relatività di Einstein sarebbe molto più semplice da comprendere rispetto a come è per noi occidentali. Albert Einstein aveva infatti sostenuto come la differenza tra presente, passato e futuro fosse un’ostinata illusione.
Un altro esempio che possiamo utilizzare per supportare la teoria di Sapir-Whorf è da pescare nel mondo letterario, in particolare George Orwell e il suo celebre 1984, in cui viene presentata la neolingua, ossia la lingua ufficiale del governo nel mondo distopico orwelliano, che non permette agli individui che la parlano di avere determinati pensieri. Anche Wittgenstein, il filosofo linguista di inizio novecento, sosteneva che siamo “intrappolati” nel nostro linguaggio per poter ragionare.
Arrival: Una Nuova Possibilità di Tempo
Il linguaggio, quindi, ci dà un nuovo modo di vedere e reinventare il mondo. In questo modo imparare una particolare lingua può letteralmente modificare i nostri stati mentali, idee e pensieri; ed è esattamente quello che accade alla nostra protagonista.
Louise riesce finalmente a comprendere fino in fondo il linguaggio degli Eptapodi. Un linguaggio circolare che non ha direzioni e non conosce ordini di lettura. Immaginate di dover scrivere una frase utilizzando le due mani e partendo da entrambe le direzioni, dovreste già sapere che cosa volete scrivere e lo spazio che andrete a occupare. Questo tipo di linguaggio permette di percepire il tempo in una maniera completamente diversa da come la esperiamo abitualmente, non in maniera lineare ma circolare. Così, passato e futuro equivalgono al presente, tutti coesistono contemporaneamente nella mente del soggetto.
Questo consente di esperire il tempo non più come una linea, ma quindi come un intero al quale è indifferente guardare da una parte piuttosto che da un’altra, ciò che è stato e ciò che sarà coesisteranno.
Louise comprendendo la loro lingua, comprendendo quindi questa determinata concezione di tempo, potrà vedere il proprio futuro e quindi agire di conseguenza. Con questo colpo di scena magicamente orchestrato dal regista Denis Villeneuve (autore di Blade Runner 2049), finalmente capiamo che tutti i flashback di Louise in realtà sono flashforward. Lei sarà in grado di vedere e conoscere il suo futuro, anche ciò che nessun essere umano vorrebbe.
Louise scoprirà in anticipo che avrà una figlia dal suo collaboratore, Ian, ma saprà anche che ella morirà in tenera età, perché malata di una grave patologia. Inoltre, verrà abbandonata dal partner a cui avrà svelato la sua predizione. Egli dunque, incapace di accettare i crudeli eventi a cui dovrà andare inevitabilmente incontro, si allontanerà.
Arrival e La Fantascienza Umanista
Ed è qui che il grande guscio fantascientifico che ha coperto quasi l’intera stesura del film inizia a creparsi fino a rompersi definitivamente, permettendo alla vera questione della vicenda di emergere. La tematica centrale legata alla consapevolezza, la capacità di vedere cosa deve ancora accadere, e grazie a ciò agire di conseguenza nel presente.
Fondamentale è la domanda che pone Louise a Ian quando prende consapevolezza dell’inevitabile morte della propria figlia: «Se potessi vedere la tua vita dall’inizio alla fine, cambieresti qualcosa?».
Beh, forse è la domanda che dovremmo porci tutti, e che questo film meraviglioso ci costringe a porre, perché non siamo in una situazione così profondamente diversa da quella della nostra protagonista.
Noi preferiamo pensare che il futuro possa essere indeterminato, aperto e non stabilito come il passato. Ma secondo l’assetto scientifico, o comunque una parte di esso, le cose non vanno proprio così. Si presenta quindi il sogno del matematico Laplace, per cui si possa considerare il futuro tanto prevedibile e calcolabile quanto il passato. Considerare ogni evento come effetto di una causa e come causa di un effetto, dunque matematizzabile.
Questo assetto che comprende una vasta parte del pensiero scientifico è detto determinismo. Un’istanza tutt’altro che chiara e condivisibile, ma per questo momento diamola per assodata. Allora possiamo pensare alle nostre azioni e alle conseguenze di quest’ultime come conoscibili, prevedibili.
Pensare al futuro come già accaduto. Possiamo in un certo modo vedere il nostro futuro in una maniera simile a quello che accade alla nostra protagonista. Sappiamo per certo, ad esempio, che moriremo e non possiamo fare nulla per cambiarlo. Come sappiamo che soffriremo, che cadremo e che ci rialzeremo, che piangeremo e che gioiremo, che odieremo e che ameremo.
Allora qui la questione diventa come affrontare tutto ciò, come comportarsi, cosa scegliere, cosa fare di fronte a questa consapevolezza.
Louise scoprendo in anticipo cosa le succederà, conoscendo la prematura morte della propria figlia, l’inevitabile abbandono del marito troppo debole per vivere con la conoscenza di un fatto simile, vivendo tutte le sofferenze che questi accadimenti le causeranno, ma al contempo anche tutte le gioie e l’amore che la vita le consentirà di provare, Louise prende una decisione e sceglie di vivere. La nostra protagonista ci dà una risposta che ognuno di noi dovrebbe prendere e mettere da parte, tenerla in un cassetto e tirarla fuori a ogni momento di necessità. È una risposta che ci deve accompagnare sempre, che necessitiamo per vivere veramente a pieno la nostra intera esistenza, una risposta che non dobbiamo abbandonare mai.