Se solo la sala fosse stata piena, qualche tempo fa, durante la proiezione del documentario Pertini Il Combattente al Bif&st.
Ne scrivo solo ora, dopo un tempo non realmente pattuito, per una piccola consapevolezza sopraggiunta, capace di assestarsi solida nelle incertezze dei miei sguardi odierni sulle cose del mondo. Ne scrivo oggi, in un momento di lontananza dal peso della realtà, piuttosto trasformatasi in un racconto nel quale essere per forza un personaggio, senza davvero sapersi guardare. Un personaggio che condanna, che si eleva, ma che infine non coglie, spesso, la sostanza più primordiale, la radice prima del nostro giudicare.
Giudichiamo per frasi fatte, pensieri non pensati, riflessioni concepite per dimenticarsene. In un’Italia sempre più divisa in ogni suo livello, per status sociale, per rapporto tra politici e cittadini, tra stampa e verità, ma soprattutto per emozioni e vissuto, si perpetua la triste verità del nostro egoismo. Un sotterraneo patto che elogia il nostro privato più personale, i nostri affari, il nostro perseguire incondizionatamente il successo, dimenticandoci ciò che fu la lotta per valori più grandi, per un’umanità migliore.
Ma alla fine anche queste mie parole sembrano piuttosto un’ennesima retorica nostalgica, ma fine a sé stessa. Ed è qui che si annida il punto: quella radice non è detta, ma sentita, come un’eco lontana che difficilmente pensiamo partecipi alla nostra realtà. Ma non è così, il nostro modo di guardare il mondo oggi non è assoluto ed unico, non è condizione necessaria e sufficiente.
Se solo la sala fosse stata piena, quando Pertini ce lo ricordava. Il documentario di Giancarlo De Cataldo e Graziano Diana sa essere un tramite per un messaggio che va oltre la storia, l’istituzione e la leggenda, formalizzate come documenti da memorizzare meccanicamente mentre li si legge. Perché non è raccontare un evento, un momento ma l’emozione, il valore, lo scopo che quegli istanti rappresentavano.
Così, in un percorso Pop scandito da musiche di ogni genere che hanno sempre Pertini come titolo e protagonista, ci immergiamo in momenti, crescenti e diversi, non per ricostruire un’epoca specifica, ma un modo di essere uomini. Ed è meravigliosamente essenziale tale accento: poiché sovviene in noi un pensiero speciale, non politico, non conflittuale, ma di catarsi nel vero e proprio valore di essere un uomo di principi imprescindibili.
Lasciamo stare i pregiudizi che si fingono giudizi consapevoli, abbandoniamo le vie costituite da termini che vincolano, non perché questi non appartengano alla realtà, ma perché ci dimentichiamo che siano derivati da qualcosa che viene prima.
E quel prima, è credere fermamente in qualcosa, di giusto, di umano, di invalicabile. E’ un luogo emotivo, ma non istintivo, e neppure razionale. E’ un luogo proprio per questo profondamente umano, poiché consapevole della potenzialità dell’emozionarci per un valore conseguito, compreso o raggiunto, ma che già ci apparteneva, era solo rimasto offuscato dalla fretta.
E Pertini era questo. Era questo che rendeva magico il suo esultare per la vittoria dei mondiali, concedendosi una briscola per poi ammettere più in là di aver sbagliato la giocata, in un diletto che si fa simpatia per i suoi amici italiani. Ma era anche il partigiano chiamato terrorista perché voleva mettere una bomba al meeting dei gerarchi nazi-fascisti, così come l’uomo, perché di questa splendida specie in estinzione qui si tratta, che abbracciava la sofferenza, quella di terremoto così come di un bambino bloccato in un fosso.
Non c’è qui giudizio sulle scelte, ma sulla coerenza valoriale, quella che oggi sembra soccombere con un’incredibile semplicità al compromesso degenerato, talmente ovvio da essere accettato.
Perché anche il suo partito andava condannato nello scandalo delle tangenti. Perché al male bisogna resistere con tutte le forze, mai cedervi, mai annetterlo con accordi alla propria tavola.
Perché la coerenza, quella vera, ci mette dinnanzi alla possibilità di condannare e di essere condannati rispetto alle nostre idee.
Se solo la sala fosse stata piena, quell’emozioni avrebbero risuonato ancora più forte, in uno slancio a voler fare qualcosa, dimenticandoci di quell’anatema del non poter cambiare nulla, perché alla fine, chi l’ha detto che sia così.
Ed oggi lo capisco, non per questo mi sento migliore, quanto piuttosto fortunato nell’aver rispolverato una piccola grande consapevolezza: che migliori lo si può sempre essere.
Se forse smettessimo di farne una questione di nomi, di estremi, avendo il coraggio di guardarlo nella sua essenzialità, capiremmo che quel che definiamo semplicista o banale è invero ricolmo di complessità.