The Imitation Game – Quanto Male si è disposti a fare in nome del Bene?

Tommaso Paris

Giugno 1, 2018

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The imitation game.

1941. Piena Seconda Guerra Mondiale. Uomini di ogni ceto e credenza pronti ad affrontarsi sul campo di battaglia, pronti a sacrificare la propria vita per salvaguardare il popolo, pronti a morire per un ideale di pace e fratellanza. Eppure, questa guerra non la combatterono solo i soldati, altri uomini ebbero un ruolo fondamentale, uomini senza muscoli, seduti dietro ad una scrivania e con una particolare dote per gli indovinelli. Ed ecco la guerra dei Matematici.

Ed ecco che entra in gioco l’incredibile storia di Alan Turing nel magico film The Imitation Game.

Durante il secondo conflitto mondiale la Germania nazista, per trasmettere informazioni segrete da una parte all’altra del globo, utilizzò una macchina criptante ritenuta inviolabile, poiché presentava 159 milioni di milioni di combinazioni possibili che si modificavano ogni 24 ore, la macchina era chiamata Enigma. La decrittazione di Enigma da parte delle forze alleate era considerata quasi impossibile, ma non per tutti.

Qui entra in gioco Alan Turing (interpretato magistralmente da Benedict Cumberbatch) e la sua squadra di matematici con i quali riuscì a compiere qualcosa che chiunque avrebbe ritenuto irrealizzabile. Alan Turing, un uomo fragile, ma con una mente potente, tanto stravagante da andare in bicicletta con una maschera antigas, quanto geniale da essere considerato il padre dell’informatica, fu indispensabile per le sorti del corso della guerra. Infatti, come si evince da una significativa frase del film:

Sono le persone che nessuno immagina che possono fare certe cose, quelle che fanno cose che nessuno può immaginare…

Una volta decrittato Enigma, però, emerse la parte più ardua, tenere tutto ciò segreto. Gli inglesi non potevano permettere ai nemici di scoprire che la macchina cifrante era stata violata, altrimenti avrebbero cambiato metodo di trasmissione delle informazioni, rendendo vana tutta la monumentale impresa.

Ed ecco si manifesta la vera tragicità del lungometraggio, si innalza il vero tema che agisce trasversalmente colmando tutti i piani di lettura di questa importante vicenda storica. Cosa fare di fronte alla consapevolezza del potere e del peso di queste informazioni? Utilizzare immediatamente i dati decrittati e salvare le vite di una piccola città inglese da un bombardamento improvviso, oppure lasciare morire un numero minore di persone per preservare il segreto, in vista di un bene comune più grande?

Appunto, quanto Male si è disposti a fare in nome del Bene. Una questione strettamente ed inevitabilmente morale.

The imitation game

The imitation game

Così gran parte della seconda guerra mondiale fu determinata dai servizi segreti britannici che conoscendo in anticipo le mosse tedesche, decidevano quali informazioni utilizzare e quali no, quali attacchi lasciar avvenire e in quali difendersi, con l’obiettivo di non far capire ai nazisti che l’inviolabile Enigma era stata decrittata. Venne sviluppato un sistema di analisi statistiche per trovare il minimo numero di azioni necessarie per vincere la guerra. Dei calcoli imbrattati di sangue.

Ecco che si manifesta l’elemento emotivamente di più impatto, viene gettata sul volto dei personaggi e dello spettatore la consapevolezza che una scelta è da compiere, indipendentemente da quanto aberrante possa essere, perché il risultato comunque lo sarà. Una scelta amorale, che va al di là di un’istanza puramente etica, poiché una scelta simile, in una dimensione strettamente morale, non ha risposta. Una decisione disumana che in ogni caso provocherebbe un numero incommensurabile di vittime, di sogni infranti, di progetti cancellati. Una scelta che deve addossarsi il peso e la responsabilità di tutte le conseguenze, di tutto ciò che distruggerà e causerà, le grida, i pianti, gli abbandoni.

In ambito rigorosamente logico la risposta è piuttosto chiara: preservare il segreto, perché avrebbe potuto salvare un numero maggiore di vite umane, ma è un ambito in cui il numero regna sovrano, dove la logica prevale sull’etica. Ed allora non c’è che una risposta. Ma noi non siamo esseri logici, siamo esseri umani.

Dove, però, inizia la Logica e finisce la Morale? Fin dove la Logica è la risposta, e quando la Morale ha il dovere di mostrarne l’errore?

Eppure, una scelta andava presa, e venne presa. Agire per il Bene comune? Secondo gli storici ha accorciato la guerra di almeno due anni e salvato oltre 14 milioni di vite umane. La domanda, però, è sempre inevitabilmente quella… Quanto Male si è disposti a fare nel nome del Bene?

Ha salvato 14 milioni di vite umane, sì certo. Ma a quale prezzo? È un ragionamento che facciamo a posteriori, legittimo, ma a posteriori.

Chi si è assunto il ruolo di giocare a fare Dio? Perché è di questo che si tratta. Chi si è assunto la responsabilità di decidere chi dovesse vivere e chi morire? Tantissime esistenze totalmente ignare del fatto che qualcuno dietro una scrivania, dall’alto abbia deciso per la loro vita attraverso l’esecuzione di un calcolo matematico. Vittime totalmente prive della responsabilità della loro stessa morte. Un numero terrificantemente grande di individui con una famiglia, dei figli, delle credenze, dei sogni e progetti, completamente spazzati via dalla faccia della terra, perché non congeniali ad un calcolo probabilistico.

Se l’uomo si attribuisce il ruolo Dio, chi può giudicare le sue scelte? Chi può avere l’ardire di mettere in discussione una tale decisone?

Avviene una totale disumanizzazione delle vittime, persone vengono ridotti a numeri, pedine, oggetti senza emozioni o sentimenti, appartenenti ad un gioco apparentemente più grande. Tutto ciò è inevitabile, altrimenti la scelta sarebbe davvero impossibile. Questo fatto lo si riscontra chiaramente nella parte più tragica ed emozionante del film. Un ragazzo della squadra dei matematici scopre che il fratello in battaglia sarà destinato ad essere parte del calcolo imbrattato di sangue, che sarà sacrificato per la giusta causa. Ciò porterà il personaggio a mettere in discussione la legittimità del loro lavoro, che forse tanto facilmente e logicamente accettabile non è. Accuserà Alan Turing, la squadra e il governo inglese di stare giocando a fare Dio, a scegliere chi debba vivere e chi morire. Perché è essenzialmente questo che stava accadendo, giocare ad impersonare Dio.

La seconda guerra mondiale fu il conflitto più grande per il numero di morti di tutta la nostra storia, causò un novero inimmaginabile di vittime civili, di donne e bambini. Mostrò la sconfitta di qualsiasi ottimismo antropologico, l’uomo fallì in tutte le sue forme. Il secolo passato può aver mostrato l’inesistenza di Dio, o per lo meno l’inesistenza di un’entità astratta benevola e cara alle sorti degli uomini. Questo però, non legittima alcun altro ad assumerne le veci.

The imitation game

The imitation game

Dunque si è agito per il Male minore. Abitualmente facciamo così, agiamo con questa finalità, non potremmo fare altrimenti, noi razionalizziamo, noi neghiamo o non potremmo continuare a vivere. Un fine superiore giustifica i mezzi di un male minore, diceva Machiavelli dopotutto. Un fine così grande quanto sconfiggere la Germania nazista e riportare la pace vale qualsiasi tipo di mezzo, cosa saranno mai qualche migliaio di vite umane innocenti in confronto alla pace nel mondo? Lo si dice chiaramente nella pellicola; “Il nostro lavoro non è salvare un civile, ma vincere la guerra”.

Con ciò non voglio assolutamente lasciar intendere che la soluzione giusta sarebbe stata quella di utilizzare i codici della macchina immediatamente, salvare un numero minimale di vittime e lasciare che i tedeschi potessero cambiare sistema di trasmissione. Alan Turing ci ha permesso in parte di vincere la guerra, quelle scelte erano forse inevitabili. Anzi, se in questo momento io sono in grado di mettere nero su bianco queste parole in un blog è totalmente grazie a lui, perché fu il padre dell’informatica e ideatore del primo computer, ma soprattutto perché, alla fine, ci ha permesso di salvare 14 milioni di vite umane innocenti, vincere la guerra, ed essere chi e cosa siamo ora.

Semplicemente, quello che oso mettere in dubbio è che tale scelta sia elementare come potrebbe apparire a prima vista, che la risposta a domande esistenziali tanto grandi abbia anche minimamente a che fare con la logica, perché qui, si sta parlando di tutt’altro.

Il fine giustifica i mezzi. Sì, forse, ma a quale prezzo?

 

The imitation game.

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