All’annuncio della realizzazione di Solo: A Star Wars Story, secondo film del filone antologico inaugurato da Rogue One che accompagna dal 2016 la saga di Star Wars, i fan non hanno certo fatto grandi salti di gioia. Da un lato, il fascino di Han Solo è legato in gran parte al suo passato avvolto nella leggenda, che per molti sarebbe stato meglio lasciare tale; dall’altro, era considerato a dir poco sacrilego far interpretare il pilota del Millennium Falcon a un attore che non fosse Harrison Ford.
Solo: A Star Wars Story è, come già lo è stato Rogue One, un prodotto ibrido: un film da incastrare il primo, un film da ricollegare l’ultimo, ambe due alla saga principale. Solo è certamente più adatto per esplorare territori nuovi sul piano narrativo e formale (qui appaiono evidenti richiami western, una delle fucine da cui la mente di Lucas ha attinto) ma al contempo ancorato alla mitologia creata da George Lucas – e perciò incatenato ad alcune dinamiche, ancora di più rispetto al film di Gareth Edwards che prevedeva un gruppo di personaggi inediti, con camei o azioni limitate (chiedo venia, tranne l’ultima).
Qui il potenziale per espandere l’universo c’è, e alcuni elementi possono generare a loro volta ulteriori spin-off sia al cinema che in televisione (a seconda delle scelte della Lucasfilm), ma le vere sorprese sono poche in un lungometraggio che “deve” attenersi ad un copione balenato già nell’immaginario dei fan: l’incontro tra Han e Chewie, il rapporto con Lando, la partita per il Falcon. La rigidità dovuta al “fan service”, apprezzabile, potrebbe costituire un limite di staticità per quest’opera e probabilmente rende Solo il più “debole” dei lungometraggi del nuovo corso di Star Wars.
L’impostazione del film è quello di una storia estremamente tradizionale, quasi archetipica: il “romanzo di formazione”, un giovane che parte dai bassifondi della galassia e continua ad entrare e uscirvi, ma con una graduale presa di coscienza delle complessità e delle difficoltà che la vita ha da offrire nei primi anni di dominio Imperiale e delle lotte tra sindacati criminali. In questo scenario, ognuno recita la sua parte secondo il più classico dei copioni: Alden Ehrenreich, “il ragazzo”, non ha le spalle larghe abbastanza per ereditare il ruolo e la performance di Harrison Ford (inoltre strizza sempre gli occhi per ostentate disincanto e farabutteria), Woody Harrelson alias Tobias Beckett, una sorta di suo mentore nel mondo degli avventurieri, Donald Glover nei panni del poco affidabile Carlissian, il rivale. Poi ci sono elementi nuovi o previsti, come la sfuggente Qi’ra, interpretata dalla dolce Emilia Clarke, motore e miraggio di tante scelte del protagonista, il fedele Chewbecca e il cattivo dichiarato e “di facciata” Dryden Vos.
Se vi siete alzati con l’amaro in bocca ciò non è dovuto come molti sostengono, all’inadeguatezza del giovane protagonista, un film di questa portata ha evidentemente risentito anche delle traversie produttive che hanno portato Ron Howard ad ereditare la regia da Phil Lord e Christopher Miller e che mai riesce a dare la sua impronta al film. Solo non ha osato mai, non è riuscito a farci piombare in quell’atmosfera dove tutto è al di sotto della cortina da Primo Impero, non è permeato da alcuna aura mitologica, non mostra una rincorsa a posteriori ad Episodio IV. Il pathos, l’avventura, la passione, questi ingredienti ci sono, ma sono asettici, messi assieme non danno brivido, perché il cinema non è questione di pura matematica, così col passare dei minuti la pellicola di Ron Howard si affloscia.
Non è questione di lesa maestà, quella interessa pochissimo, siamo ormai abituati in Star Wars, come nei rifacimenti di altre saghe a desacralizzare tutto il desacralizzabile, e in fondo ci va bene così perché vogliamo assuefare la nostra sete da fanatics e poi magare criticare la cupidigia delle case che producono fino allo sfinimento derivati dalla saga che amiamo.
Il punto è un altro, Solo: A Star Wars Story è un film che nonostante sia un inseguimento, un’avventura, una sparatoria, un intrecciarsi di giochi e doppi giochi nel quale in fondo nessuno sa mai bene di chi si può fidare veramente, nonostante Howard infarcisca clichè cinematografici come gli inseguimenti d’auto, la guerra di trincea in stile I Guerra Mondiale o l’assalto al treno, riesce a non appassionarti mai come vorrebbe. Nonostante, o proprio perché, verrebbe da dire: l’impressione è che tutti questi giri, singolarmente architettati bene, stiano lì a mascherare l’assenza di una storia eccezionale per questo protagonista. E nei pochi momenti in cui il film si rilassa, e si gioca la carta dell’umorismo, battute e frecciatine vanno a segno solo in parte.
Capisco, siamo nel mondo del pistolero spiritoso, un universo di cinema molto maschile in cui si rischia continuamente la morte con toni scanzonati. Dalla sceneggiatura si evince che dal film dovrebbe fuoriuscire il piacere di vivere avventure e l’eccitazione di non averne paura ma anzi esserne attratti, con lo sguardo carico di desiderio mentre si dà massima potenza al Millennium Falcon guardando oltre la videocamera (che nel Millenium si piazza sempre sotto al parabrezza). Ma di queste intenzioni rimangono solo indizi da studiosi, tracce da trovare al microscopio in un film che sembra non saper fare mai coincidere quel che vuole essere con quello che è.
Se non sapessi che Ron Howard è amico di Lucas, quasi adepto, mi verrebbe da ipotizzare che chi dirige non ami il filone, non colga cosa ci dovrebbe essere di così bello nel mostrare anche delle scene da clichè ma di Han Solo e limitarsi a renderle comprensibili. La mano di Ron Howard non punge, un regista di sistema, capace di adattarsi a quel che fa con un tono classico non avrebbe impostato così male i toni western che dovrebbe avere Han Solo, un’enumerazione di citazioni banalizzate invece di esserne permeato. Evidentemente i problemi che hanno accompagnato la produzione hanno intaccato anche l’operato, quasi sempre, sapiente del buon Ron.
In sintesi, manca molto in Solo. Manca la “rivoluzione” così deflagrante come quella portata da Rogue One, dove la volontà di esplorare un genere diverso come una storia di guerra travolgeva in modo più smaccato gli stereotipi starwarsiani che eravamo abituati a dare per scontati; così come forse manca una scena o un momento “epocale” che sia in grado di “fare la storia” della pellicola (tolta la scena che sancisce per sempre il teorema Han Shot First).
Howard però mostra comunque il suo talento non solo omaggiando il maestro riproponendo fedeli panorami, classicheggianti temi e atmosfere, ed il livello narrativo estremamente lucido, ma soprattutto non limitandosi a impostare il film a mo’ di romanzo di formazione. Diviene una sorta di moderno Dickens, pone di fronte al protagonista ogni sorta di figura che rappresenta una sfaccettatura dal giovane Han, un suo pregio o difetto estremizzato, e gli offre una lezione (in positivo o in negativo) che lo porta ad avvicinarsi alla canaglia cinica che troveremo a contrattare in una taverna di Mos Eisley alcuni anni dopo.
Analizzato le critiche Solo ha degli spunti però molto apprezzabili sia per fedeltà al canone che come pellicola. Il “minimalismo” della storia può lasciare a bocca asciutta chi cerca nella pellicola temi qui dichiaratamente assenti come la Forza, i Jedi, il destino della galassia come posta in gioco e la dimensione epica ed eroica degli scontri tra grandi eserciti. Ma sarebbe forse sbagliato cercarli in quello che vuole e deve essere principalmente un racconto sulle origini di uno dei personaggi più amati della trilogia originale. Non dimentichiamo poi che Han è da sempre il meno mistico (“Ragazzo, io ho girato la galassia in lungo e in largo, ho visto un sacco di cose curiose, però non ho visto niente che mi abbia convinto che esiste un’unica onnipossente “Forza” che controlla tutto quanto! Nessun campo di energia mistica controlla il mio destino.” Cit), posto fuori da qualunque dinamica relativa alla forza, inoltre se non coinvolto sentimentalmente tenta, e spesso riesce ad evitare, qualunque comtroversia epico/storica all’interno dello Star Wars universe.
Altra peculiarità di Solo (al gusto del singolo spettatore decidere se si tratta di qualcosa che arricchisce o sminuisce l’esperienza visiva del film) è la sua potenziale incompiutezza: dire che alcune trame restano aperte e necessitino di una prosecuzione è dir poco, e lo stesso percorso di crescita di Han, per quanto abbia un arco soddisfacente e facile da seguire, dà l’impressione di avere ancora qualcosa che manchi per dirsi compiuto. Quello che è certo è che la dimensione episodica delle pellicole stellari acquista ulteriore peso dopo l’esperienza di Solo. Sorte ironica per una pellicola che vorrebbe andare ad aggiungersi alle esperienze cinematografiche “autoconclusive”. Ma del resto l’ironia non manca affatto in Solo, ed è proprio questa la nota con cui tiriamo le fila. Lo Han, il Chewie e il Lando di questa storia, anche se con molti anni di meno sulle spalle, non falliscono nel mostrarci in fieri i personaggi scanzonati ed esuberanti che diventeranno negli episodi della trilogia classica: li riconosciamo, li apprezziamo e ci sentiamo a casa in loro compagnia.
La Disney sa bene che ha bisogno di personalità per far durare Guerre Stellari a lungo, per non trasformarlo in qualcosa di ordinario ma nell’evento che si presuppone debba essere ogni volta. Non è un caso che abbia giocato come genesi dello “New” Star Wars Cinematic Universe la carta di Han Solo: una canaglia.