A diciannove anni avevamo rubato, rapinato, sequestrato e spezzato vite. In un mondo che rifiutavamo, perché non era il nostro. Tutto quello che volevamo, ce lo siamo preso.
(Gioacchino Criaco)
Quando venne alla luce nel 2014, Anime Nere fu accolto come una delle opere più importanti del cinema italiano contemporaneo, e l’incetta di premi e riconoscimenti che ottenne fecero presagire una nuova ondata di giovani autori pronti ad emergere. E in effetti, seppur in maniera ancora limitata, gli ultimi anni ci hanno regalato tanti buonissimi film e autori che fanno ben sperare per il futuro, dopo anni in cui il cinema italiano aveva attraverso momenti di sconforto (eccetto per i grandi autori). Ho conosciuto Francesco Munzi, regista del film, qualche giorno fa durante una lezione di regia: un uomo simpatico, un attento osservatore, un curioso sempre in cerca di storie. Le sue parole sembravano fuoriuscire come un continuo movimento narrativo, tant’è collegato per lui il cinema alla vita quotidiana. Penso di non esagerare nel definirlo l’autore cinematografico che, in un incontro ravvicinato, mi ha saputo dare di più (anche per quanto riguarda quello che sogno di fare), e questo sicuramente è un motivo ancora maggiore per poter apprezzare la sua opera, che tutti gli amanti della settima arte dovrebbero guardare con grande attenzione.
Il film segue le vicende di tre fratelli di Africo, luogo purtroppo famoso per la malavita calabrese: due di essi fanno la spola tra il loro piccolo paese e le grandi città del nord, dove gestiscono un traffico di droga internazionale, mentre il più grande di loro è rimasto nel paese, nella speranza di vivere una vita lontana dalla criminalità organizzata, pur sapendo che da questi vincoli non si sfugge mai. La bravata del figlio di quest’ultimo, con tutte le conseguenze del caso, accenderà nuovi contrasti e problematiche, con derive tragico-familiari come sempre inevitabili. La regia di Munzi è straordinaria nell’affrontare una storia (purtroppo) come tante ne abbiamo sentite negli ultimi anni, riuscendo a penetrare nell’esplorazione antropologica dei personaggi, con un taglio documentaristico consueto nella sua cinematografia.

Meglio ancora, grazie ad una stupenda e rigorosa fotografia, rende il paesaggio calabro personaggio principale senza esibirlo mai, in maniera similare alla Roma degli esordi Pasoliniani. Evitando la retorica, il regista ci mostra l’arcaicità di quelle terre desolate tra capre e sangue, vittime di una società che le ha deturpate di qualsiasi sprazzo di bellezza e umanità, mettendole in contrasto con le nuove frontiere della ‘ndrangheta, fatte di macchine lussuose e case luccicanti nel cuore della città, che fanno da cornice e gabbia ad un mondo violento, dove la passività delle donne (mogli, figlie e madri) è ancora vissuta come la più normale e giusta delle cose, e i vincoli di promesse e parole d’onore vengono recitate in dialetto, quasi fosse quest’ultima la lingua del peccato. Impossibile non citare il perfetto lavoro che il regista realizza con gli attori, vere e proprie maschere nel “presepe” filmico, tra cui spiccano le interpretazioni di Fabrizio Ferracane (Luigi) e Peppino Mazzotta (Rocco); allo stesso modo, la colonna sonora di Giuliano Taviani (figlio del grande Vittorio), descrive perfettamente situazioni e umori narrati, incorporando musica nera e tarantella calabrese, quest’ultima ritratto della festa e unicum emotivo di una fragile umanità nascosta nelle torbide scorze della malavita. Un’opera dura, spietata, da nodo in gola costante. Un ritratto perfetto degli angoli più bui del nostro paese.
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