Giustizia e libero arbitrio sono due dei concetti più sviscerati da parte dei pensatori di tutte le epoche, i quali hanno tentato di fornirne delle definizioni adeguate, in grado di coglierne l’essenza.
Ad esempio per Platone la giustizia era intesa, in un senso sfumatamente teorico, come l’armonia tra le tre parti dell’anima di un uomo – dove quella razionale avrebbe dovuto governare su quella irascibile e su quella concupiscibile – un equilibrio che avrebbe dovuto riflettersi specularmente nello Stato – dove la classe razionale, i filosofi-re, avrebbero dovuto governare sulla classe dei guerrieri e su quella dei contadini, ognuna di esse con il loro compito. Con Aristotele invece si intravede un concetto più moderno di giustizia, dal quale emerge il giusto mezzo come principio livellatore tra un difetto e un eccesso.
Allo stesso modo il concetto di libero arbitrio è stato indagato nei suoi molteplici aspetti, passando dall’incompatibilità con la religione cristiana all’occasionalismo, la dottrina nata nella seconda metà del ‘600 come risposta al problema cartesiano del dualismo mente-corpo. Secondo tale filosofia, la volontà dell’uomo si tradurrebbe nella conseguente azione fisica solo grazie all’intervento divino, che avrebbe dunque occasione di manifestarsi. Infine come non accennare a Spinoza e al libero arbitrio inteso non come libertà assoluta di scelta, ma come assenza di ostacoli nello sviluppo naturale delle cose.
Ora, capisco che sino a questo momento sembri più un saggio di filosofia che la recensione di un film, ma questa macro-premessa serviva a dare una minima idea di quanto siano complessi questi due concetti, presi singolarmente. Ecco, in Minority Report – pellicola del 2002 diretta da Spielberg – giustizia e libero arbitrio non solo vengono in contatto, ma si intrecciano a tal punto da creare un rapporto sinergico nel quale si influenzano reciprocamente; ed è da questo che nasce l’idea più interessante del film.
Anno 2054, Washington, da sei anni non viene commesso alcun omicidio grazie alla Precrimine, una sezione investigativa che, sfruttando i poteri di precognizione di tre individui detti Precog e disposti in una vasca sensoriale, riesce a sventare qualsiasi assassinio prima che effettivamente si realizzi. Infatti i poteri extra-sensoriali dei Precog, che si manifestano durante i loro sogni, riescono a percepire la volontà di un individuo di commettere un omicidio, informazione che rende la Precrimine in grado di prevenirlo, arrestando il potenziale assassino.
Già si intuisce la conseguenza etica di un simile sistema investigativo: se ciò che viene punito non è l’azione in sé – dal momento che non è ancora avvenuta e che, soprattutto, non avverrà – ma l’intenzione di compiere tale azione, allora la giustizia diviene una forma della realtà a priori, piuttosto che a posteriori, come la matematica. Si potrebbe addirittura sostenere che la giustizia cesserebbe di essere tale.
Fatto sta che il sistema Precrimine funziona e presto potrebbe essere allargato su scala nazionale. In virtù dell’estensione del programma, il Governo manda l’ispettore federale Danny Witwer – Colin Farrell – per verificare che il sistema sia perfetto e senza difetti.
Tom Cruise, nei panni del capitano John Anderton, è il responsabile della Sezione, autore di innumerevoli arresti. In seguito ad un indagine parallela che stava portando avanti, il capitano Anderton diventa l’oggetto della precognizione dei Precog, poiché nella loro visione è lui stesso che commetterà il prossimo omicidio, pur non conoscendo la vittima designata, Leo Crow.
Le vicissitudini portano il capitano a cercare e trovare la dottoressa Iris Hineman, una dei creatori dei Precog, al fine di capire se ci possa essere un margine di errore o se, addirittura, sia possibile falsificare le visioni. Ed è qui che si manifesta il momento epifanico della struttura narrativa: la dottoressa spiega ad Anderton che, seppur raramente, può capitare che la visione della Precog più dotata, Agatha, non coincida con quelle degli altri due Precog. In questi casi il potenziale colpevole non ucciderà la potenziale vittima. È quello che viene chiamato “rapporto di minoranza”, un difetto del sistema che potrebbe mettere in crisi la legittimità dello stesso e che quindi non viene registrato nella banca dati.
Il confine fra morale, giustizia e libero arbitrio si fa ancora più sfumato, perché non solo la giustizia intesa in questo modo va a minare la scelta degli individui prima che la possibilità di tale scelta si manifesti, ma lo stesso concetto di libertà diventa intimamente subordinato a quello di giustizia. Senza contare le implicazioni morali per chi antepone la libertà di costruire un bene idealmente superiore – il programma quasi-infallibile, ipotizziamo al 95% – alla libertà delle persone, giustificandosi con il leitmotiv della priorità del bene collettivo rispetto a quello individuale.
Il corso degli eventi fanno sì che il capitano Anderton giunga a scoprire un complotto ordito contro di lui, al fine di non farlo scavare più a fondo nell’indagine che stava portando avanti. Si tratta di un omicidio commesso anni prima dal suo capo Lamar Burgess ai danni della madre di Agatha, la quale, una volta disintossicata, aveva rivendicato l’affido della figlia, minacciando così l’intero programma Precrimine.
Insomma un altro richiamo alla subordinazione del bene individuale rispetto a quello collettivo, come se questo potesse fornire una giustificazione del male, non solo dal punto di vista pragmatico, ma anche da quello etico.
Sul finire della pellicola Burgess viene smascherato e si suicida. Mentre tutta la sezione Precrimine, alla luce degli ultimi avvenimenti, viene completamente smantellata.
La domanda che lo spettatore si pone durante l’intera durata del film è una domanda scomoda: la giustizia delle intenzioni è un vantaggio sociale che può colmare lo spazio morale lasciato dal condizionamento del libero arbitrio?
È possibile provare a dare una risposta solo considerando il problema su due livelli. Umanamente parlando, non si può non accettare il fatto che la possibilità di salvare le vittime prima che diventino tali fornirebbe le condizioni per propendere per un tipo di giustizia preventiva. Non si capisce infatti perché dovremmo lasciare che gli assassini uccidano le loro vittime per poi arrestarli dopo, specialmente considerato che l’arresto ci sarebbe in entrambi i casi, con la rilevante differenza che, se questo si verificasse tra l’intenzione e l’azione, impedirebbe la presenza di una vittima.
Se però usciamo dalla sfera empatica, comprendiamo subito che una giustizia sulle intenzioni esclude necessariamente una giustizia sui fatti. Ma la trasparenza dei fatti è ciò che rende la giustizia ciò che è e l’introduzione di un’analisi, per quanto possa essere razionale, delle intenzioni rende più flebile la ragionevolezza (ricordate la storia dell’essere condannati solo se colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio?) di questo costrutto sociale. Le intenzioni infatti possono evolversi o modificarsi così rapidamente da rendere impossibile la loro comprensione e, a fortiori, identificarvi il principio cardine di qualsiasi forma di giustizia.
Volendo andare ancora a scomodare le discipline matematiche, si possono considerare i fatti come costanti (elementi che hanno un valore fisso) di un’equazione, mentre le intenzioni come variabili (elementi che possono assumere qualsiasi valore). Un’equazione di sole costanti darà sempre lo stesso risultato, ma è sufficiente anche una sola variabile per dare un carattere di incertezza – pragmatica, non analitica – al risultato.
Insomma, quello che voglio dire è che una giustizia delle intenzioni non solo comprometterebbe la possibilità di scelta – o non-scelta – degli individui, ma lo farebbe in virtù di un elemento così poco vincolante rispetto alla tangibilità delle scelte. E non so se una forma di giustizia così sfuocata possa valere il prezzo da pagare in termini individuali.