Full Metal Jacket – Come perdere fiducia nell’Umanità del genere Umano

Alessandro Cataldi

Ottobre 16, 2018

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“Ognuno di noi, che lo voglia o meno, è in parte affascinato dalla violenza. L’uomo dopo tutto è il killer meno provvisto di rimorsi che abbia vissuto sulla Terra, e quella fascinazione dimostra che siamo assai poco dissimili dai nostri antenati più remoti”.

Stanley Kubrick

 

Nel corso della sua carriera cinematografica lunga quasi mezzo secolo, iniziata nel 1953 con Fear and Desire e conclusasi nel 1999 con Eyes Wide Shut, Stanley Kubrick è riuscito, attraverso il grande schermo, a realizzare numerose riflessioni sul senso della vita, sul nostro mondo, sulle contraddizioni e i paradossi che lo caratterizzano, sull’universo che ci circonda e in particolare sull’essere umano.

Per decenni il regista è stato in grado di distillare l’essenza dello zeitgeist, lo spirito del tempo”, come afferma John Baxter nella sua biografia, creando una galleria di immagini indelebili che sopravvivranno finché esisterà il cinema.

Tutto questo spaziando dal genere fantascientifico a quello storico, dall’Horror al drammatico e soffermandosi in particolare sul tema della guerra.                                  Kubrick era affascinato da quest’ultima concepita sia come istinto umano legato indissolubilmente agli altri, amore compreso, sia come meccanismo razionale che è in grado di produrre soltanto eventi irrazionali.

A partire da Orizzonti di gloria, proseguendo con Spartacus e infine con Il dottor Stranamore e Barry Lyndon, Kubrick era stato sempre il regista dei conflitti, sia psicologico che reale. Questa volta scelse un’ambientazione storicamente più vicina alla sua epoca: la guerra del Vietnam.

L’idea gli venne quando, nel 1982, leggendo un romanzo di Gustav Hasford intitolato The Short-Timers. A differenza degli altri libri di genere, l’opera di Hasford era caratterizzata da una fortissima propensione all’onirico e al surreale e conteneva al suo interno una lunga macro sequenza in cui veniva illustrata l’agghiacciante fase di addestramento del corpo dei Marines.

Kubrick decise quella sarebbe stata la storia che avrebbe portato sul grande schermo.

In Full Metal Jacket non siamo più di fronte alla guerra classica di Spartacus e Barry Lyndon, allo stesso modo cinica e casuale, ma dobbiamo fare i conti con la guerra novecentesca, guerra moderna e priva di senso, capace di mettere alla prova i limiti del genere umano. Come in altre sue pellicole, il regista voleva analizzare come un vero scienziato, il comportamento degli esseri umani posti sotto l’ennesimo stress della logica del conflitto militare.

Il film mostra una realtà nella quale i soldati vengono risucchiati in un processo di disumanizzazione ed omologazione che troverà nel conflitto armato il proprio atto finale. Tutto ciò dopo essere stati sottoposti ad un lungo addestramento il cui unico scopo è quello di costruire macchine da guerra, distruggendo le personalità dei singoli ma esaltandone l’aggressività, l’odio e l’intolleranza.

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Il processo di disumanizzazione: gesti significativi e la funzione del linguaggio

Nella scena che accompagna i titoli di testa, assistiamo al taglio dei capelli delle reclute, primo passo per renderli simili gli uni agli altri. Il momento è caratterizzato, inoltre, da un forte senso metaforico: il barbiere che sta “operando sulle loro teste”, fa presagire il lavaggio del cervello a cui saranno sottoposte e quale sarà il loro fatale destino (i soldati cadono in guerra come le loro ciocche sul pavimento).

Il secondo passo è la privazione del loro nome che preannuncia la perdita dell’identità. I nomi inventati dal Sergente Hartman, affibbiati alle reclute a scopo umiliante, hanno un intento sicuramente dispregiativo.

Un altro punto fondamentale è la funzione del linguaggio. Infatti, attraverso il turpiloquio del capo istruttore si tenta di ridurre a funzioni organiche primarie l’uomo, secondo l’equazione che gli istinti di soddisfazione (mangiare, evacuare, riprodursi) e quelli polemici (uccidere, conquistare e comandare) vanno sviluppati fino all’ennesima potenza. Gli uomini diventano sempre più simili agli animali e alle bestie.

Questo avviene inoltre grazie all’esibizione del fucile come estensione dell’organo sessuale, attraverso il ricorso a canzoni oscene, a un linguaggio quasi sempre volgare, ma anche grazie alla preghiera dedicata al fucile, con il quale i soldati, entreranno in simbiosi, diventando dispensatori di morte.

Se il film si interrompesse al minuto 45 potremmo dire con certezza che Kubrick abbia voluto creare un film antimilitarista che rappresenti la follia e la psicosi che circondano l’ambiente militare, in particolare quello americano.                                    Sicuramente il folle ed insano addestramento militare ha le sue colpe, ma non era questa la sua intenzione. Egli stesso in un’intervista disse:

So che questo film scatenerà un sacco di reazioni scandalizzate e offese. La sinistra politica lo chiamerà fascista, e la destra, beh, chi lo sa? Non so immaginare cosa penseranno le donne di questo film […]. Di certo non credo che il film sia anti-americano. Penso che cerchi di dare un senso della guerra e della gente, e degli effetti della prima sulla seconda. Penso che per qualsiasi opera d’arte, se posso chiamarla così, che stia attorno alla verità e sia efficace, sia molto difficile scrivere una bella micro spiegazione di quale sia l’argomento”.

Il suo sguardo, a differenza di altri registi, non prevedeva però nessun velo ideologico; uno sguardo cinico da storico che non ammette punti di vista o prese di posizioni dichiaratamente di parte.

                                                                                                                                                                                                                                            Full Metal Jacket è un film né pro, né contro la guerra, ma sulla  guerra.    

Se infatti dalla sua visione emerge il lato della guerra come esperienza vana ed insensata, dall’altra parte si afferma fortemente il concetto di un conflitto inevitabile. Non a causa del fatto che l’America dovesse intervenire militarmente in Vietnam, ma come inalienabile atto di violenza perpetrata nei confronti degli altri, da sempre convivente con l’uomo ed insita nella sua stessa natura malvagia.      Secondo Alan Turner infatti, Kubrick nelle sue pellicole ha affrontato le questioni “del male universale e di quello tramandato”.

Questo aspetto ci porta però ad osservare la pellicola sotto un altro punto di vista e arrivati fin qui dovremmo iniziare a farci una serie di domande alle quali probabilmente lo stesso Kubrick cercava di rispondere attraverso i suoi film.

Perché esiste la guerra? Perché l’uomo, nell’ottica del conflitto militare, si spoglia delle sue fattezze “umane” indossando i panni dell’assassino e si trasforma in una perfetta macchina da guerra?

Nsequenza 21 infatti, mentre Joker si trova davanti ad una fossa comune con dei cadaveri, un colonnello lo intercetta e definisce una forma di umorismo malsano il fatto che questi vada in giro con la scritta “Nato per uccidere” sull’elmetto e un distintivo di pace sul petto. Joker afferma di aver prodotto questa contraddizione per far riferimento alla teoria junghiana sulla dualità dell’essere umano. È in questa scena che troviamo la chiave di lettura del film.

Micheal Herr, a proposito della sua collaborazione alla sceneggiatura di Full Metal Jacket, disse:

“La sostanza era semplice: il vecchio e sempre difficile problema di come dare corpo, in un libro o in un film, alla presenza viva di quella che Jung chiama l’Ombra, il più accessibile degli archetipi, e il più facile da provare, […]. La guerra è il territorio per eccellenza dell’attività dell’Ombra, dove portano tutte le sue attività”.

Come hanno detto in Vietnam: Anche se cammino attraverso la Valle dell’Ombra della Morte, io non avrò paura del Maligno, perché io sono il Maligno.

Sembra perciò di poter capire che la tendenza dell’uomo a trasformarsi in un soldato-assassino sia un fatto intrinseco della sua natura.

Jung, gli archetipi e l’Ombra

A proposito di questo concetto lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung nel suo libro Gli archetipi e l’inconscio collettivo (1934), tende a concepire l’inconscio umano distinguendolo in inconscio personale e inconscio collettivo. Se il primo è popolato dai contenuti d’esperienza rimossi o non attuati dall’io, il secondo è il luogo in cui si deposita la “memoria” culturale dell’umanità contribuendo a formare la struttura profonda della personalità del singolo. L’inconscio junghiano, dunque è certamente costituito da una sfera istintuale, legata all’originaria e primitiva componente biologica dell’essere umano.

In esso però ha un’importanza centrale una componente di natura antropologico-culturale, costituita dagli archetipi (dal greco archè, “principio”, e typos “modello”). Questi sono simboli, modelli, immagini universali primordiali, che sono comuni a tutti gli individui e li orientano riguardo alle loro esperienze fondamentali. Inoltre influenzano il pensiero, l’istinto e il sentimento.

Tra questi c’è l’Ombra. 

Essa rappresenta la parte della psiche più sgradevole e negativa, coincide con gli impulsi istintuali che l’individuo tende a reprimere. Impersona tutto ciò che l’individuo rifiuta di riconoscere e che nello stesso tempo influisce sul suo comportamento esprimendosi con tratti sgradevoli del carattere o con tendenze incompatibili con la parte conscia del soggetto. In un certo senso, l’evoluzione junghiana dell’Es freudiano.

Successivamente si assiste ad una graduale evoluzione che coglie dell’ombra l’aspetto sovrapersonale e sovratemporale allargandosi poi alla problematica del male, che trova la sua più matura espressione in opere scritte dallo psichiatra tra anni quaranta e gli anni cinquanta del ventesimo secolo. Si passa dunque da una concezione personale dell’ombra, come somma del negativo dell’individuo, ad una concezione sovrapersonale, in cui l’ombra è ombra assoluta, il negativo dell’esistenza, il male.

È probabilmente questo lo Jung più vicino storicamente ed affine al pensiero di Kubrick, e il peso di questa entità maligna si riesce a sentire e a percepire in numerose sequenze del film.

Freud tra Eros e Thánatos

Lo stesso concetto di dualità dell’essere umano può essere inoltre ripreso e ampliato se prendiamo in considerazione alcune opere della maturità del fondatore della psicanalisi, nonché “padre” professionale dello stesso Jung.                                      Sigmund Freud in Al di là del principio di piacere (1920), introduce una nuova descrizione dei principi elementari che strutturano la psiche. Egli parla infatti di un uomo governato da un lato da un istinto di vita (simboleggiato dal dio greco Eros) e dall’altro da un istinto di morte (personificato dal dio Thánatos).

Lo psicologo osserva che la pratica analitica mette in luce nella psiche impulsi profondi che tendono alla vita, esprimono la sessualità in termini positivi, tendono al piacere e orientano l’uomo verso sentimenti che lo legano ai suoi simili con vincoli di affetto e di amicizia.

Dall’altra parte a costituire il suo “lato malvagio” sono gli impulsi distruttivi che orientano l’uomo verso comportamenti violenti, desideri che negano la vita e tendono a disgregare gli esseri umani e a farli ritornare ad uno stato inorganico, in cui non c’è vita e neppure sofferenza.

La sequenza 20a mostra in tutta la sua spietata crudeltà questo istinto di morte. Joker e Rafterman vengono trasportati al fronte in elicottero; insieme a loro c’è un terzo soldato che spara all’impazzata sulla popolazione inerme, senza distinguere tra donne, vecchi o bambini. A stento Rafterman trattiene i conati di vomito.

Joker: Ammazzi anche donne e anche ragazzini?                                       

Mitragliere dell’elicottero: Se capita!                                                           

Joker: Come fai a sparare sulle donne e sui bambini?                           

Mitragliere dell’elicottero: È facile! Vanno più lenti miri più vicino! La guerra è un inferno no?!

Nell’inconscio, campo di battaglia in cui Eros e Thánatos coesistono, si manifesta il conflitto primordiale, originario, che genera tensioni e contraddizioni di cui l’Io deve farsi carico di conciliare. Le due forze però sono indispensabili allo stesso modo perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto.

Einstein come Kubrick: uomini preoccupati per le sorti del mondo

 “Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire isolatamente; essa è sempre legata – vincolata, come noi diciamo – con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, solo così ne permette il raggiungimento. Per esempio, la pulsione di autoconservazione è certamente esotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo la pulsione amorosa, rivolta a oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del suo oggetto”.  

(Carteggio Sulla guerra, Einstein-Freud, 1933)                                            

È lo stesso Freud a parlare, nella famosa corrispondenza, pubblicata nel 1933, che ebbe con il fisico Albert Einstein, dal titolo: “Perché la guerra?“                                      Einstein si rivolge allo psicologo non tanto in qualità di scienziato, quanto piuttosto in veste di uomo preoccupato delle sorti del mondo. La sua domanda era: “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”. Il dibattito ovviamente è attraversato dall’esperienza disastrosa del primo conflitto mondiale, una guerra di dimensioni immense, da cui l’Europa era uscita sconvolta.

 “Per gli scopi immediati che ci siamo proposti da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini. Si dice che in contrade felici, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci sono popoli la cui vita scorre nella mitezza. presso cui la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Posso a malapena crederci; mi piacerebbe saperne di più, su questi popoli felici. […] Io la ritengo un’illusione.”

(Carteggio Sulla guerra, Einstein-Freud, 1933)

Con queste parole Freud mostra di non avere alcuna fiducia nella speranza di un uomo libero dai suoi istinti omicidi e criminali e crede soltanto che questa aggressività umana possa essere deviata al punto che non trovi espressione nella guerra, anche se lo reputa assai difficile.

Kubrick sicuramente avrebbe dato una risposta negativa alla questione posta da Einstein, poiché, come lo psichiatra austriaco, considera la tendenza dell’uomo all’aggressività naturale e innata e costituisce una continua minaccia per l’umanità, alimentando tensioni esasperate, lotte per il potere, conflitti.

Ovviamente il suo cinico realismo era dovuto al fatto di aver vissuto le conseguenze della seconda guerra mondiale e quindi il suo sfociare nella guerra fredda e la conseguente corsa al riarmo. Il suo vissuto è inoltre segnato dai bombardamenti atomici del 1945, un evento che ha sicuramente introdotto la vita dell’uomo in un contesto di totale contingenza.

 “Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e auto-distruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due “potenze celesti”, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?”

(Sigmund Freud – Il disagio della civiltà, 1930)

Ogni passo fatto dalla civiltà verso la sedazione, il controllo o l’abolizione di Thánatos potrebbe non bastare: tanto più oggi che l’uomo possiede gli strumenti tecnici per procedere alla propria stessa autodistruzione, l’aggressività originaria potrebbe avere comunque la meglio su Eros, a dispetto degli immani sforzi di quest’ultimo.

Il finale di Full Metal Jacket è il più inquietante, disperato e cinico di ogni film di Kubrick.

In quest’ultimo passaggio il soldato Joker si trova davanti lo sguardo agonizzante della giovane cecchino vietnamita che ha decimato il suo gruppo di esplorazione militare. Per la prima volta si trova faccia a faccia con l’orrore di dover uccidere qualcuno dall’inizio del film. Il ragazzo, spinto dalla pietà, dà alla ragazza il colpo di grazia trasformandosi ineluttabilmente in una macchina per uccidere.    Il suo volto è segnato da smarrimento ma in pochi secondi i suoi occhi cambiano e la sua espressione suggerisce quello che è appena stato un battesimo della morte, un passaggio dello Stige, un punto di non ritorno.

Il Soldato si è appena trasformato in un assassino.

Nei trent’anni che lo separano da Orizzonti di gloria, il regista ha apparentemente perso qualunque fiducia, se mai la ebbe, nell’umanità della razza umana. Alla fine di quella pellicola, i soldati di Kubrick, sono riusciti a ritrovare la propria anima ma in Full Metal Jacket l’hanno irrimediabilmente persa. Quando Joker afferma: “Certo vivo in un mondo di merda. Ma sono vivo e non ho più paura”, sappiamo che il proiettile che ha posto fine alla vita della ragazza vietnamita, ha anche ucciso il Joker che ha saputo resistere all’addestramento dei Marines per lungo tempo.                                                                                                                                                                                                                    Mentre gli Americani marciano attraverso l’inferno di fuoco che hanno generato, cantando una perversa rivisitazione della canzone del Club di Topolino, l’immagine si dissolve verso il nero e i Rolling Stones cantano Paint it Black, rappresentando l’ultimo spietato e lucido messaggio di Kubrick:

“I look inside myself and see my heart is black,                                                                 It’s not easy facing up when your whole world is black”

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