Ogni 26 dicembre la tradizione cristiana celebra il martirio di un certo santo, il primo, fra tutti, ricordato dopo la nascita del Cristo. Al capitolo sette degli Atti degli apostoli leggiamo che «egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio […] e disse: “Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio.” Allora, gridando a gran voce, si turarono gli orecchi e si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori dalla città, e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. E lapidavano Stefano, che pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito.”»
Da ieri, mercoledì 6 febbraio, i più alti vertici delle forze armate, nella persona del generale di brigata Alessandro Casarsa, sono lambiti dall’indagine di una corte di giustizia, sospettati di depistaggio. Il 13 novembre dello scorso anno, un certo film, varcava la soglia dei palazzi del potere, riconfermando la sua natura di opera assolutamente politica. Pochi giorni prima pare che in una libreria calabrese, durante una proiezione di quello stesso film, degli agenti dell’Arma avessero tentato di schedare gli spettatori presenti. Domenica 4 novembre, ad Andria, un’associazione locale aveva organizzato l’ennesima proiezione, e a parlare c’era Riccardo Casamassima, carabiniere anch’egli, fra i testimoni chiave di un certo processo giudiziario. Proseguendo a ritroso, l’11 ottobre 2018 iniziava l’udienza di quel processo – ancora in corso – in cui si trovano indagati i cinque militari rinviati a giudizio lo scorso luglio. Uno di quest’ultimi, Francesco Tedesco, con sorpresa di tutti rendeva pubblica la sua denuncia contro ignoti risalente al mese di giugno, riguardante la scomparsa di una sua notazione su ciò che era accaduto a Stefano Cucchi, quella notte in caserma di nove anni fa. Soprattutto, Tedesco chiamava in causa proprio due colleghi dell’Arma a loro volta imputati, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, ammettendo il loro coinvolgimento nel pestaggio del giovane romano, oltre che la propria e altrui conoscenza dei fatti.
Ancora, un mese prima (12 settembre) usciva in alcune sale cinematografiche, su Netflix e sui muri di svariati centri sociali il primo film a soggetto sul caso Cucchi, un film che racconta l’ultima settimana di prigionia e di vita del ragioniere trentunenne già noto alle cronache. L’evento aveva fatto presto a svincolarsi dalla visione in solitario su laptop e smart tv per proiettarsi negli spazi pubblici di mezza Italia, grazie alle iniziative di schiere di giovani di sinistra, di fronte a un pubblico sempre numeroso e dei più variegati. Il cinema e le sue storie tornavano, dopo molto tempo, a divenire occasione di aggregazione di massa, dibattito fra sconosciuti, interesse collettivo, in un moto di sollevamento generale delle coscienze che aveva portato anche la famiglia di Stefano e parte del cast alla commozione e all’approvazione di ciò che stava spontaneamente prendendo vita, mentre i produttori e il regista, con le loro ragioni e i loro torti, criticavano la clandestinità delle proiezioni.
Dalle sale dei collettivi, dalle piazze cittadine, dai prati delle università gli spettatori cominciavano, nutriti da un’esperienza di cinema oltre che artistica, propriamente civile come non accadeva da generazioni, a manifestare l’impegno politico che questa esperienza andava sedimentando in loro, e si organizzavano, e si riversavano in massa di fronte alle aule di tribunale, con megafoni e striscioni e foto di Stefano, ad accompagnare Ilaria Cucchi, l’avvocato Anselmo, i familiari.
È bello pensare che un’opera cinematografica abbia dimostrato un merito tanto vasto e trasversale per la società tutta, che abbia lasciato un’impronta così profonda, e tanto spronante nella vita degli spettatori. Ed è un sollievo pensarlo, oltre che bello. Ma la domanda a cui bisogna rispondere è: questo merito è da attribuirsi a chi il film lo ha concepito e realizzato, o a chi lo ha visto e si è organizzato? Al film stesso o al solo pubblico, che ha rivissuto come mai prima una storia già conosciuta – ed è stato fondamentale, ed è stato grazie al cinema –, ma, disabituato com’era, non si è reso conto di trovarsi di fronte non solo a una storia, ma a una sua narrazione? Quello che accadeva e continua ad accadere, sotto il filo di luce dei proiettori all’aperto di tutta Italia e di fronte ai tribunali romani da tre mesi a questa parte, si sarebbe verificato a prescindere da che tipo di film su Stefano Cucchi si fosse girato, a patto che di Stefano Cucchi si parlasse? E perché la risposta è sì? Si dovrebbe cercare di isolare l’opera dall’euforia collettiva delle piazze mediatiche e non, per altri versi certamente sana, prenderla in sé per sé, vedere di cosa si tratta.
Su di un qualsiasi film di seconda categoria, o comunque poco pregevole, diciamo che si potrebbe scrivere una recensione sbrigativa, dove limitarsi a colpire le brutture più eclatanti, acida al punto giusto, magari ironica, per non prendere troppo sul serio qualcosa che non prova nemmeno a prendersi sul serio. Si potrebbe fare un lavoro che insomma lascia correre senza lasciar correre del tutto, proprio come ha fatto Alessio Cremonini con il suo Sulla mia pelle. Ma questo, anche noi, non possiamo proprio farlo, e nessuno avrebbe dovuto poterlo fare quando si trattava del caso di Stefano Cucchi, giudici compresi. Vedendo, anche più volte, il film, ascoltando le parole dello stesso regista, viene facile spiegare perché l’uno sia poco pregevole e l’altro un artista codardo, omertoso, o semplicemente con poco da dire, che è la migliore delle ipotesi in questo caso.
L’incipit della storia raccontata da Cremonini tradisce da subito un lavoro eccessivamente scolastico: siamo costretti ad assistere alla classica presentazione del personaggio principale, osservato, per farcelo subito familiare, nelle scene tipo della sua routine quotidiana. Ergo Stefano che fa una corsa la mattina, Stefano che va a messa, Stefano che va al lavoro, Stefano che si allena in palestra, Stefano che taglia il fumo, Stefano insomma, per un inizio piuttosto telefonato che ci suggerisce di attenderci una regia scontata, salvo essere contraddetti in seguito, ma [SPOILER] non accadrà. Se non altro, di questi primi minuti si possono apprezzare i silenzi, i quali stentano però a manifestarsi di qui in poi per tutto il resto della pellicola che, come tutte quelle carenti di questo elemento (un silenzio disteso, che indugia senza frette), pare tema affidarsi alla linfa del cinema: la capacità dell’immagine.
Il tutto, fortunatamente, non ci impedisce di tentare un salvataggio parziale dell’opera, che pure riesce a tornare a galla a tratti. In primis è quindi doveroso osservare che la rappresentazione del nemico, della “guardia”, rende giustizia della varietà umana della categoria degli uomini in divisa. Conosciamo tanto il prepotente che abusa del proprio potere, tanto il maresciallo dai modi bruschi e impiegatizi, che non ama le perdite di tempo e i mezzi termini, tanto il negligente che niente vuol avere a che fare con eventuali responsabilità, infine il compassionevole che offre una sigaretta al detenuto massacrato. Lo stesso vale per medici, paramedici, infermieri…
Il lavoro compiuto da Alessandro Borghi con il personaggio di Stefano è poi uno dei punti più in luce di tutto il film: l’attore romano ha portato a termine un capolavoro di preparazione, specie vocale e somatica – ben diciotto chili in meno, tra l’altro –, che lo fa spiccare sopra al resto di cast e troupe. Il che è comunque tutto dire sull’opera, se il lato migliore ne risulta il lavoro di un singolo attore.
Oltre a ciò, nell’ottica di quel che emerge come un sistema penitenziario complesso, sarebbe forse risultata interessante una soluzione narrativa più kafkiana, di oppressione macchinosa e stillicida, indecifrabile e invincibile per il singolo. Soluzione che pure viene colta, sebbene ancora troppo sbrigativamente, nel caso delle scene della famiglia Cucchi di fronte all’altoparlante dell’inaccessibile struttura carceraria, tra le poche veramente riuscite di tutto il lungometraggio. Fra le altre, ci viene in mente quella dove la consueta scelta della camera fissa assume di senso, intrappola lo sguardo dello spettatore nell’inattività di uno stallo percettivo che gli impedisce di “intervenire”, costringendolo a osservare inerme il corpo del protagonista maneggiato e rivoltato dalla macchina della radiografia, l’unica a compiere azione.
Sì, insomma, almeno qua l’intenzione dell’autore sembra farsi più chiara: se non gli assassini, si denunci il mondo che li ha partoriti.
Resta poi ben poco da salvare: aldilà degli eventi che toccano in prima persona il personaggio principale, isolato dal mondo esterno nel dualismo spaziale di carcere-civiltà, e per quel che invece riguarda la narrazione di ciò che accade al di fuori, questa si limita al ritratto della sfera familiare dei Cucchi. Ne risulta però una rappresentazione telefonatissima e standardizzata della tensione casalinga, difficilmente in grado di condurre lo spettatore all’ansia mostrata sullo schermo. Non si riesce a parteciparne, alla stregua degli stessi personaggi, in ciò ulteriormente appiattiti da un’interpretazione carente, di resa superficiale, eccezion fatta per un Max Tortora decisamente sopra le righe.
La matrice tragica dell’intera rappresentazione sembrerebbe dunque la frustrante negligenza di un intero apparato statale che non riesce a cogliere la silenziosa richiesta di aiuto di Stefano. Questa è quantomeno una critica che Cremonini ha avuto l’impegno di assumersi e il coraggio di mettere in scena – e senza dover per forza tirare in ballo Kafka. Ma, prima ancora, perché voler chiudere la bocca a Stefano? Perché farne un personaggio che tenta di ribellarsi solo a singhiozzi e comunque timidamente? Perché fargli confessare la violenza subita solo quando giunto a Regina Caeli, per poi ritrarsi di nuovo di fronte ai medici? Perché pauperizzarlo, incodardirlo, umiliarlo più di quanto non sia già stato fatto con lo Stefano reale? La frustrazione, la rabbia, e non compassione, non dolore, sono effettivamente sensazioni vissute dallo spettatore, ma cosa le fa più scaturire? Le gesta dello Stato, o quelle del personaggio di Stefano? La questione fa storcere il naso, e nascere quasi dei dubbi sui reali intenti dell’autore, o perlomeno sulla loro realizzazione, che possiamo considerare il più possibile mal riuscita.
Poco discutibile è che il protagonista, senz’altro ben approfondito psicologicamente, risulti bistrattato dalla scrittura alla stregua di un ingenuo, di un qualsiasi minus habens di turno. il che non rappresenta di per sé una colpa autoriale, ma quantomeno una scelta. L’ostinazione alla propria oppressione da parte dello Stefano Cucchi di Cremonini, la sua noncuranza, sono in ogni caso atti vili nei confronti della memoria, della vicenda reale a cui la finzione filmica si ispira. Ciò non può costituire un criterio per la considerazione della qualità dell’opera cinematografica, della quale le mancanze sono altre, ma non può non venire registrato tra gli intenti dell’autore, mosso da motivi che non riusciamo proprio a figurarci. Sperando, nel migliore dei casi, che semplicemente non ce ne siano.
Certo, sforzandosi, niente impedirebbe di leggere nella parabola di Stefano presentataci da Cremonini una sorta di storia di resistenza: il giovane, una volta imprigionato, porta forse dentro di sé già la coscienza della morte, rifiuta il ricovero e le cure, non considera di parlare con l’avvocato. Sono manifestazioni di un atteggiamento controintuitivo proprie di uno spirito non conforme al sistema e che con questo sistema, dopo essere stato tradito, violentato, abbandonato, rifiuta di rapportarsi, anche se significasse salvarsi la pelle? In tal senso, la sofferenza che egli si costringe a subire assumerebbe i tratti del martirio: Sulla mia pelle diverrebbe una Via Crucis, il cui inizio non è l’arresto, ma il tradimento, quello che si consuma a forza di botte dietro quella porta della caserma Appio Claudio la notte del 15 ottobre 2009, una porta che Cremonini si rifiuta di aprire alla cinepresa.
Tutta un’ipotesi, questa, per il resto piuttosto improbabile, se non altro perché conferirebbe al film una dimensione interpretativa difficile da sostenere, dato che esso non sembra cercare di essere niente più che un qualsiasi fedele, acritico resoconto delle carte di tribunale.
Ed è praticamente questo l’unico comandamento che guida la scrittura dell’opera: l’incontestata, ossequiosa fedeltà verso ciò che il potere giudiziario ha già dato per sicuro e dichiarabile, non passibile di denuncia, lecito da ammettere per chi di lavoro racconta storie che raccontano. Non c’è traccia della pura libertà dell’autore di generi di finzione, e della libertà di quella stessa finzione nei confronti del mondo con cui essa interloquisce, così da poter farne ciò che vuole, poter farsi ciò che vuole, poter raccontare ciò che realmente vuole. Niente importa quel che viene narrato, ma ciò che il narrato narra a sua volta al pubblico. Questa libertà è inderogabile, e non conta affatto quel che un codice legislativo stabilisca in merito.
Ma a quel comandamento e non a questa libertà il regista ha prestato la più stretta osservanza, di un integralismo che ha prodotto una bizzarra, ambivalente istanza di realismo che inquina l’intera pellicola: accanto alla pedissequa messa in scena di una versione dei fatti da aula di giustizia, c’è la violenza subita e non mostrata, fulcro forse primo e ultimo di ogni possibile riflessione sul lungometraggio. Dopo che il montaggio fa scorrere davanti agli occhi quell’omertoso taglio fra la chiusura di una porta alle spalle di Stefano la sera del suo arresto e il suo profilo emaciato nella macchina della polizia poche ore dopo, non si riesce più a portare rispetto per la visione, in veste di fruitori non si riesce più a prestarle la fiducia che dovrebbe pretendere. Ilaria Cucchi ha sempre parlato di una verità che era chiara a tutti, e che aspettava solo di entrare nelle aule di tribunale – e finalmente, lo scorso ottobre, è riuscita a entrarci. Evidentemente, a qualcuno questa verità non era ancora chiara, o semplicemente c’è stato timore nel gridarla ad alta voce.
Già in conferenza stampa a Venezia, Cremonini ha tentato di nascondersi dietro le giustificazioni del suo approccio prudente alla narrazione: “Beh, adesso, le prudenze diciamo che, personalmente, sono un garantista, quindi sono stato, e siamo stati garantisti perché alcune cose… I film non sono un’aula di giustizia, i film raccontano e quindi non siamo giudici, i giudici devono ancora giudicare, quindi nel nostro film c’è una porta che si chiude perché è giusto che siano i magistrati a dirci che cosa secondo loro è successo là dentro.”
Al regista romano sfugge l’inevitabile, ossia che a ogni racconto si accompagni una visione delle vicende, e finisce col contraddirsi quando ci assicura di essere un garantista, quasi il suo lavoro fosse quello, appunto, di giudice e non di regista, e i film proprio delle aule di tribunale. Contemporaneamente ritiene giusto che siano i magistrati a dirci cosa sia accaduto, confondendo i fatti reali con la finzione scenica, la vera notte vissuta da Stefano Cucchi con la notte del film: a questo punto tanto valeva lasciarlo scrivere e dirigere al pubblico ministero.
In pressoché ogni pensiero speso dopo l’uscita al cinema, Cremonini non ha mai mancato di ricordare il ruolo che nel suo lavoro hanno avuto l’aderenza severa ai verbali, l’umiltà francescana (leggi “prudente sudditanza”), l’impegno archeologico, quasi scientifico profuso per le fonti giudiziarie, più di quanto non abbia mai parlato di una propria visione delle vicende, di un suo giudizio – il termine scottante che il regista non ha mai voluto accostare ai propri intenti. Questo dunque il realismo praticato senza riserve nel suo lavoro? Questo realismo che salta all’occhio – invero nell’occhio, come un insetto – è la pertinenza ai “fatti” nuda e cruda? Senza alcun dubbio su come ci si possa ciecamente fidare di quei fatti, basati sulle sole carte tribunalizie e sulle uniche testimonianze che non si contraddicano a vicenda? E senza alcuna riflessione sulla possibile e lecita divergenza tra realtà di partenza e opera cinematografica? Questo il realismo ignobile di Cremonini? Lo stesso che ci costringe a sorbirci per un’ora e mezza l’uso poliziesco, ingenuo, smodato delle didascalie di spazio e tempo a bordo inquadratura che paiono non finire mai?
Se questo è quel realismo, si tratta di scarna poetica che si autoalimenta, sfoggio di un intento che non trova altra finalità che d’esserci: mostrare solo i fatti condivisi da tutti, sui quali non si possa discutere, così da non doversi sforzare di raccontare una propria storia, e soffocando ogni dibattito sul nascere. Un realismo che non è strumento per giungere a un fine (la denuncia, ci si aspetterebbe in questo caso) ma un luogo statico dello stile dove lo stile si addormenta senza acquistare di significato. Un realismo che, quando potrebbe prestare la propria lama al coraggio, all’onestà artistica, si tira indietro nella comoda, discutibilissima – invero finora poco discussa – scelta di non dare rappresentazione visiva all’azione violenta. Ciò non può non confermare alla nostra coscienza di fruitori, con voce sempre più chiara, il timore di Cremonini nei confronti della potenzialità del cinema, della capacità dell’immagine di cui si diceva. Le giustificazioni addotte non possono bastare.
L’appello dovrebbe essere allora quello di smettere di proiettare ovunque questo verbale della polizia in technicolor, ma è un tipo di appello che, a oggi, non ci si può permettere di fare. Sarebbe assurdo chiedere di continuare a manifestare di fronte alle aule di giustizia e contemporaneamente dimenticarsi di questo film: significherebbe sottrarre linfa a una protesta civile necessaria, e vanificare quell’impegno politico organizzato che ha trovato in una pellicola, pur terribile, il proprio propulsore. Sulla mia pelle è il film di cui avevamo bisogno, ma la speranza è che un giorno arrivi il film su Stefano che tutti, Stefano incluso, ci meriteremmo.