L’occhio umano è uno degli organi più sensibili della nostra anatomia, ciò implica che la semplice visione di un’immagine può causare uno sconvolgimento emotivo, come l’aumento del battito cardiaco nello sguardo ricambiato della persona amata, o un un pianto di fronte a una scena commovente. L’occhio è ciò che fa da tramite tra il mondo esterno e il nostro animo più profondo. Ha anche un altro lato però, poiché non possiamo ritrarci nemmeno alla visione di ciò che vi è di più brutale, nonostante il disagio che proviamo, non possiamo fare a meno di guardare.
Questa è una delle tante leggi non scritte della Settima Arte, e Oliver Stone conosce questa legge fin troppo bene; figlio irrequieto della Nuova Hollywood, il regista anti-sistema per eccellenza ci catapulta in un caleidoscopio di violenza, brutalità e dannazione.
Nella società dei consumi, all’interno della nazione che del capitalismo ne ha fatto la religione, l’amore e la rabbia sono gli unici sentimenti rimasti puri, anche quando a provarli sono due spietati assassini. Mickey e Mallory (interpretati da Woody Harrelson e Juliette Lewis), come due novelli Bonnie e Clyde, vagano per le desertiche vie di un’America desolata, mietendo vittime con inaudita ferocia. Le loro vicende, fin dai loro esordi, diventano la proverbiale “gallina dalle uova d’oro” per tutti quei programmi televisivi che non risparmiano alcun dettaglio di una tragedia per qualche percentuale maggiore di ascolti. A capitanare uno di questi programmi, troviamo Wayne Gale (Robert Downey Jr.), giovane conduttore dall’ambizione smisurata.
E così, in un mondo che ha perso qualsiasi punto di riferimento, avviene la santificazione di chi, pur conducendo una vita di eccesso e di morte, si ribella ad un sistema notoriamente sbagliato. Ma tutto questo non è altro che una fugace illusione; l’elemento che sembra a sfuggire a molti è che Mickey e Mallory fanno parte di quello stesso sistema che, con le loro azioni, sembrano voler annientare. Fa tutto parte di un sottile e perverso gioco, in cui i due affascinanti fuggitivi sono solamente delle pedine ignare del loro destino. Senza la loro presenza, infatti, non ci sarebbero persone come Wayne Gale, la cui notorietà dipende esclusivamente dalle “imprese” dei criminali.
Con la pretesa di svolgere un servizio alla nazione, lo stesso Gale riesce ad avere il permesso per un’intervista esclusiva a Mickey Knox, che intanto è stato catturato insieme alla sua dolce metà. L’intervista, probabilmente, è il punto focale dell’intera vicenda. Durante il dialogo, infatti, emergono tutte le contraddizioni di un mondo che ha inevitabilmente imboccato la via della perdizione morale.
“I’m a natural born killer” afferma con un sorriso mefistofelico Mickey un attimo prima che il caos scoppi in prigione. I detenuti si ribellano. La rivoluzione è iniziata. Una rivoluzione farlocca, naturalmente, poiché anch’essa fa parte del sistema. L’occhio che, come abbiamo detto, ha una sorta di propensione naturale a rivolgersi verso le brutalità che ci circondano, viene espresso in modo meta-cinematografico dalla telecamera di Oliver Stone; ma questo non è abbastanza per il controverso regista newyorkese.
L’obiettivo del film è effettuare una feroce critica su un mondo assuefatto dalla violenza, con l’innegabile complicità dei mass media. Per rendere ancora più pungente e diretta la critica non basta che lo spettatore guardi e giudichi un sistema malato alla radice, ma anche lui deve far parte di quel sistema.
Ed ecco che l’occhio dello spettatore non diventa solamente la telecamera di Oliver Stone, ma anche la telecamera che Gale utilizza per il suo sconsiderato reportage della rivolta in carcere. Il secondo strato di meta-cinema è quello essenziale, quello che ci provoca il maggior disagio, quello che inquadra con più visceralità l’epilettico progredire della storia.
Nell’ultima parte del film, tutti le distorsioni del modo di pensare, venute a galla durante l’intervista, si palesano senza lasciare spazio a significati nascosti o allegorie; tutto quel che ci viene mostrato è la naturale conseguenza di un mondo che ha ampiamente superato il suo punto di rottura. Il violento detective Scagnetti mostra la sua vera natura di essere malvagio, molto più simile ai criminali rispetto al modello di uomo di legge americano. Il direttore del carcere (Tommy Lee Jones) diventa prigioniero dei suoi prigionieri; lo stesso Gale impazzisce, dando sfogo a tutte le sue frustrazioni, diventando lui stesso uno dei maniaci con cui si è arricchito.
I colori si susseguono in modo psichedelico; il montaggio è perfettamente calato all’interno dello sfrenato flusso di coscienza dei personaggi. I deboli barlumi di razionalità si consumano irrimediabilmente nell’oscurità. La morte si fa largo tra le fila della speranza di salvezza e di redenzione. La follia dell’uomo si scatena, e l’umanità viene relegata ai confini del mondo; come la profezia apocalittica di uno sciamano, tutto si compie nel modo più disperato possibile.
Il film più sperimentale e feroce di Oliver Stone; eccessivo per tutta la sua durata, senza alcun timore nel mostrare delle sequenze estreme, irrazionali, ai limiti dell’assurdo. Un inquietante ritratto di un futuro, che oramai è diventato presente, da cui provare in tutti i modi a fuggire.
E allora cosa rimane? L’amore e la rabbia. Le uniche pulsioni rimaste intatte ed incontaminate da una società ipocrita completamente allo sbaraglio. Gli unici che possono sopravvivere alla massacrante visione del futuro sono proprio coloro che provano questi sentimenti in modo sincero; da loro può rinascere speranza per un mondo migliore, anche quando tra queste persone ci sono dei natural born killers.