Quello di M. Night Shyamalan è un film che probabilmente non sopravvivrà al tempo e alla storia, ma senza dubbio offre molti spunti interessanti allo spettatore. Glass è il sequel, nonché crossover, di Unbreakable – Il predestinato (2000) e di Split (2016), pellicole dirette dallo stesso Shyamalan.
Questa trilogia danza su enigmatici chiaroscuri, assecondati dall’idea che la presa di coscienza del proprio Sé avvenga nel graduale dissiparsi della nebbia dialettica. Una nebbia che cela il dualismo fra mente e corpo e che, per tutta la sua vita, il filosofo seicentesco Cartesio tentò di diradare con il lume della ragione, con la chiarezza delle proprie idee.
David Dunn (Bruce Willis) è il “supereroe” che nasce sul finire del lungometraggio del 2000: un uomo comune, con la non-comune caratteristica di essere sopravvissuto ad un disastro ferroviario. Sempre nel finale, si scopre che quella tragedia era stata architettata da Elijah Price (Samuel L. Jackson), al fine di scoprire la sua nemesi, complementare non solo in un senso manicheo, ma anche a livello biomolecolare.
Elijah ha infatti dedicato la sua intera esistenza alla ricerca di uomo con caratteristiche fisiche oltreumane, con una struttura molecolare in grado di renderlo resistente a qualsiasi tipo di urto. Perché se nel mondo c’era un individuo così fragile come lo era lui, affetto da una malattia genetica che lo esponeva a continue fratture, allora doveva esistere anche un individuo con caratteristiche fisiche sul polo opposto in questo spettro genetico.
Kevin Crumb (James McAvoy), protagonista di Split, è la variabile che appare improvvisamente in un’equazione che si pensava risolta da tempo. Sarà lui l’antagonista, fisicamente parlando, di David Dunn in Glass, o meglio, sarà la sua ventiquattresima personalità: la Bestia.
Un fil rouge lega le vite di questi personaggi e lo fa creando continue intersezioni in cui la mente e il corpo sembrano influenzarsi reciprocamente, in un moto perpetuo e dinamico di crescente consapevolezza.
Ma come è possibile che la nostra mente – per inciso, la nostra volontà – determini effetti corporei quali il nostro movimento? E, parimenti, come può il nostro corpo assorbire impulsi del mondo fisico e tradurli nei sentimenti e nelle emozioni che abitano il nostro Io?
È questa la domanda che tormentava Cartesio dopo aver indagato le caratteristiche umane e aver concluso che l’uomo fosse costituito da due sostanze indipendenti fra loro. Ovviamente la prima era la sostanza estesa (res extensa), quale è il corpo umano, al pari di ogni altro elemento materiale, organico o inorganico che fosse. Perché nella concezione meccanicistica del mondo, fondamento del pensiero cartesiano, tutto è materia e l’uomo è una macchina governata dai rapporti causa-effetto delle leggi di natura.
Ciò che però distingueva l’uomo da ogni altra cosa nell’universo era il fatto che fosse costituito anche da una sostanza pensante (res cogitans), un elemento che trascende la stessa nozione di anima, o di mente. Perché questa è indipendente dal corpo che abita e, di conseguenza, si sottrae al determinismo delle leggi fisiche: in un certo senso è pura volontà.
Rimaneva il problema di capire in che modo la dimensione mentale e quella fisica potessero interagire fra loro, permettendo all’uomo di esprimere ogni sua potenzialità. Cartesio credette di risolvere il problema elevando la ghiandola pineale, situata al centro della scatola cranica, al rango di mediatrice fra queste due realtà.
Ovviamente è una soluzione che verrà criticata da ogni filosofo a lui successivo, cartesiani compresi, perché non si può collocare in uno spazio fisico una sostanza spirituale quale è l’anima, immateriale per definizione. Né si può pensare che possa esserci un contatto fisico fra una sostanza materiale e una che invece non lo è, pena l’appiattimento della natura di quest’ultima.
A onor del vero, nemmeno le soluzioni proposte successivamente poterono vantare argomenti cogenti. Malebranche sosteneva, ad esempio, che la natura corporea e quella spirituale dell’uomo interagissero a causa di un continuo effetto divino, giacché ogni atto di volontà dell’uomo che si traduceva nella relativa azione fisica era in realtà un’occasione di intervento per Dio. In poche parole, non è la mia volontà di afferrare quella mela che causa strettamente la corrispettiva azione fisica, ma è Dio che interviene causalmente, facendo in modo che possa afferrare quella mela.
Neanche la soluzione dell’armonia prestabilita di Leibniz ebbe maggior fortuna. In questo caso l’intervento divino avrebbe avuto luogo solo all’inizio della vita di un uomo e sarebbe stato sufficiente a programmarla interamente, facendo coincidere ogni atto di volontà con la relativa risposta corporea. Tornando all’esempio precedente, non è la mia volontà che determina l’azione di afferrare quella mela, ma l’intervento divino iniziale che ha programmato la simultaneità di quel mio atto di volontà e della corrispettiva azione fisica.
Se letto fra le righe, anche quello di Shyamalan può essere visto come un tentativo di dare un contributo a questo spinoso interrogativo. Il regista indiano ha puntato sulla presa di coscienza del proprio Sé, non solo come principio mediatore fra mente e corpo, ma anche come sintesi di due mondi distinti ma non distanti.
La consapevolezza maturata da Elijah Price e da David Dunn è graduale e simultanea, legata da un destino che per tutto il primo capitolo della trilogia viene celato dietro un velo di amicizia. David prenderà coscienza delle proprie qualità oltreumane grazie all’insistenza di Elijah e, parimenti, quest’ultimo sarà pienamente consapevole di quell’idea di se stesso che a lungo aveva coltivato solo quando David diverrà il suo antagonista.
La loro corporeità, ai poli opposti nello spettro di resistenza fisica, è determinante nello sviluppo non solo dell’idea che li vede trovare il proprio posto nel mondo, ma anche di quella che, veicolata dalla prima, si dà nel modo in cui quel posto verrà occupato.
La presa di coscienza di Kevin Crumb, se così si può chiamare, trova la propria origine direttamente nella mente del protagonista di Split e di Glass, perché è questa che modella le sue capacità fisiche. In questo senso, non è la corporeità che determina una certa idea del proprio Sé, ma è la mente ad assorbire una consapevolezza che traduce nei modi di parlare, nei modi di muoversi, nei modi di essere, in ciò che fisicamente è in grado di fare.
Elijah: “Questo non è un fumetto. Questo è il mondo reale. Eppure alcuni di noi non muoiono con i proiettili. Alcuni di noi possono piegare l’acciaio. Aspetto il momento in cui il mondo vedrà che esistiamo”.
Elijah Price non si lascerà persuadere dalla dottoressa Ellie Staple – antagonista, in un senso declinato, dei tre protagonisti in Glass – che voleva convincerlo che non esistono persone con i super poteri, o comunque con abilità speciali. La dottoressa proverà a convincere anche David e Kevin della loro natura completamente umana, a tratti anche minandone la fiducia.
Ma ancora una volta, a giocare un ruolo determinante nella presa di coscienza individuale e collettiva, è Mr. Glass, consapevole che nel mondo c’è la bontà e la malvagità, c’è l’oscurità e la luce. E questo scontro primordiale non poteva che rivelare la natura oltreumana di quelle persone scelte dal disegno divino e destinate a grandi cose, nel bene e nel male.
Così, la natura dubbiosa dell’uomo, a causa della corruttibilità dell’esistenza umana, viene folgorata da una presa di coscienza nuova, fortificata dalla vittoria contro lo scetticismo. Un dualismo la cui fragilità poteva essere assaporata nei continui tentativi, senza successo, di spiegarne i moti dialettici, adesso trova nella consapevolezza un terreno fertile in cui coltivare i semi del progresso della civiltà.