Pulcinella è una smorfia, che deforma il viso. Zigomi che risaltano sulle guance scavate, un nasone come montagna che spunta sulla terra brulla, e due occhietti piccoli piccoli e neri come pozzi; la maschera di un sorriso, il simulacro di un divertimento che nasconde altro. Lo sberleffo come un velo dietro cui nascondere le ansie del lavoratore precario e sfruttato; l’indolenza come una palude in cui affogare speranze e progetti, troppo spesso disattese o abbandonati; la frenesia del cibo, degli spaghetti presi a piene mani, nascosti nelle tasche, come “no future” in salsa partenopea.
Maschera nera di protezione dalla realtà, di lotta dell’anima contro l’esistente; o anche maschera nera di morte. Come il volto emaciato del postino di Neruda che si inerpica sugli strapiombi di un’isola ostile; o l’ultimo afflato di un attore, prima di precipitare nell’abisso o di ascendere all’infinito.
Nella tradizione e nella cultura partenopea, due artisti su tutti sono riusciti a rendere al meglio la dualità di Pulcinella. Il primo, incontrastato, è sicuramente Massimo Troisi; capace di toccare vette di comicità inarrivabili nei suoi primi sketch, e di complessità nei suoi primi film, ma, al tempo stesso, di regalare interpretazioni drammatiche come quella de “il postino”, col volto segnato dalla malattia.
Il secondo è Pino Daniele, il Pino degli esordi, che si esibiva vestito di bianco come Pulcinella; il Pino che cantava il caffè e il mandolino, che raccontava delle capere e dei femminielli, con una lingua che tradiva il sentimento di occupazione che la città subiva dal secondo dopoguerra, con l’alternarsi di napoletano e americano, sempre trascinato dall’arraggia e dall’appocundria. Due Pulcinella per la stessa maschera, due cuori per lo stesso amore, due anime per la stessa terra. Ecco a voi “Il postino” e “Suonno d’ajere”.
“Pullecenella mio
comme si’ cagnato
sta maschera nera t’a si’ levata.
[…]”
Mario è un uomo, in un’isola di pescatori. Tutti i maschi la mattina si svegliano prima dell’alba per andare a gettare le reti in mare; tutti o quasi. All’appello mancano giusto Mario e il direttore dell’ufficio postale, ma quello è di fuori, è furastiero, si sente da come parla; viene dal nord lui, e mica a Bergamo e a Milano si va in barca a pescare le alici? Mario, invece, è figlio di pescatori, perché lui non esce in barca? Perché non riesce ad essere come tutti gli altri abitanti? Lui si sente e si vede diverso, ogni volta che sale in barca gli viene il raffreddore, quasi fosse un’allergia. Le sue stranezze sono viste con sospetto o scherno nel paese, ma lui ha fame di vita. E allora coglie l’occasione al volo, si toglie la maschera nera del pescatore e indossa quella del postino.
“[…]
Quanta dulure
e quanta suonno d’ajere,
ce sta chi dice
ca nun viene cchiù.”
L’emigrazione è come uno spettro, che aleggia sul paese, portato da pacchi e cartoline. Il fantasma dei tanti che sono partiti per sfuggire a un’esistenza racchiusi in una palla di vetro, isolati e isolani. Tutti quei suonno d’ajere sono voci che sibilano col vento. Lamenti di progetti affogati nell’immobilità di un paese che si nutre di sé stesso; voci di speranze smarrite tra il frinire dei grilli sui picchi a strapiombo sul mare. Chi resta, conduce un’esistenza sospesa, confinata in una quotidianità labirintica, in giornate che si ripetono tutte uguali; si sopravvive, orfani di futuro e orfani dell’ironia consolatoria di Pulcinella. Persi nei dulure delle reti che tagliano le mani e delle barche che spezzano la schiena.
“Ma nun è overo
ca ie so’ fernuto
e allucco pe’ tanto dulore
pe’ tanto dulore.”
Mario è stanco di questa esistenza immobile, vorrebbe evadere dal labirinto per riempire la sua vita. Chi sa che questo nuovo lavoro non sia l’occasione giusta. Diventare il postino di Neruda potrebbe aprirgli orizzonti inesplorati, facendogli conoscere i pensieri e i sentimenti che muovono la mente di un grande poeta. E chissà che, preso per mano, non riesca a scoprire il mondo sconosciuto della poesia, la lingua oscura delle metafore; o forse che riesca finalmente a dare forza ai sussurri della sua mente, a trasformare in urlo quell’afflato di vita che gli torce l’anima.
“I’ allucco ogne minuto
ncoppa ‘e vocche d’e criature
ncoppa ‘e mane d’e signure ‘e ‘sta città
pe chesta miseria ca nce stà ‘nzino a dinto ‘e recchie
e nun ce lassa manco ‘o tiempo
e nce guardà.”
La poesia è dei criaturi e dei puri di cuore, di quelli capaci di percepire la bellezza del mondo circostante. La poesia è nella curiosità ingenua di Mario mentre fa mille domande a Pablo, preso nell’entusiasmo di un linguaggio nuovo e infinito. Sembra l’unico modo per sfuggire al mondo gretto dei signure, di quei politici arraffoni e malavitosi, che tengono in ginocchio una comunità intera, centellinando il pane o l’acqua. Evitare il destino di uomini e donne saturi di una miseria che gli impedisce di gustare qualsiasi piacere; scappare da un mondo che baratta il proprio animo poetico per un posto nel paradiso borghese dei ruoli e delle convenzioni sociali. Mario preferisce scrivere metafore, piuttosto che sgobbare nella taverna. Il postino vola sulla sua bici di parole, lontano da una cucina buia e puzzolente.
“Ma a chi stammo aspettanne
pe stènnere ‘sti panne
‘e parole nun fanne rummore
nun fanne rummore”
Si può comporre a comando? Non si crea qualcosa dal nulla, questa è la risposta del poeta al postino. Bisogna fare esperienza della realtà, sentirla sulla pelle e nelle viscere, prima di poterla buttare giù in versi. Lasciarsi ispirare dalla natura, dalla voce del mare e dallo sguardo dei promontori; viaggiare sulle onde e sul vento, e ascoltare i sussurri degli alberi e le chiacchiere dei gabbiani; odorare le reti pregne di salsedine e accarezzare i calli sanguigni dei miserabili.
La poesia per Neruda deve essere una lente sul reale per scardinare l’esistente; non può esserci poetica slegata da una lotta, solo per il gusto di mettere la natura in versi, ma deve diventare la lingua dei maltrattati, l’epica dei minatori cileni e dei pescatori procidani.
“Tu nun si’ cchiù Pulecenella
facive ridere e pazzià’
mo t’arragge e pienza a’ guerra
e nce parle ‘e libertà”
Poeta, filosofo, amatore, paladino. Mario è irriconoscibile agli occhi degli altri, è estraneo alle logiche del paese e alle consuetudini; raccoglie il sospetto della vecchia suocera, il fastidio del notabile e gli anatemi del prete. L’amore che i suoi versi hanno suscitato in Beatrice, non sono una spinta abbastanza forte per trascinarla nelle sue aspirazioni di libertà. Decide di sposare la causa dei deboli e di entrare nelle fila del partito comunista, nonostante la partenza di Pablo o forse proprio in virtù di questa, per seguire la linea di quel materialismo poetico che l’artista cileno gli ha mostrato. Appena resta solo, il postino ormai disoccupato, apre il quaderno regalatogli dal suo mentore e scrive la sua poesia più bella: un foglio bianco riempito dei suoni dell’isola. Si immerge nella natura tumultuosa, si trasforma, fino a diventare parte di essa nella calca umana della folla in rivolta.
Poche ore dopo la fine delle riprese, Massimo Troisi muore. Stroncato da un male a quel cuore che lui ha sempre portato sullo schermo; sia sotto forma di passione per il cinema e la risata; sia come riflessione sul valore dell’affettività in un mondo che ci scopre sempre più soli. La sua è la maschera di un Pulcinella che fa ridere, che strappa risate anche quando dice le verità più vergognose di un paese marcio; il suo volto, sempre più scavato dalla malattia, ci racconta una storia di amore incondizionato. Amore per Beatrice, per la poetica di un corpo su cui viaggiare con lo sguardo e l’immaginazione; ma soprattutto amore per la vita, per il sole che lo abbraccia sulla sua bici da postino. In questo ultimo gesto d’amore, Massimo sparge il suo ultimo respiro sulle reti e sulle onde di Procida, prima di imbarcarsi sul traghetto per l’immortalità.