Arthur Fleck non è, e non è possibile che sia.
Un Joker incerto, vago, leggero ed estetico è quello che da ieri sera mi stimola a pensare su tutte le possibili sfumature dell’illogico, del contro-pensiero che sfida l’ontologia di Parmenide.
Nel mio spazio mentale ride e compie i poetici movimenti della danza solitaria, attraverso la quale lancia la sfida alle ipocrite convenzioni costruite dalla società civile moderna, patologica e arrogante.
Quando penso al metodo di lavoro scelto da Todd Phillips per realizzare questo Joker, mi suggestiona l’idea dell’attività scultorea: sottraendo colpo dopo colpo il materiale umano che Arthur Fleck non è, ciò che resta alla fine è la solitudine meschina di una simbolica angoscia di morte.
Iscrivendosi in un registro teatrale quasi ellenico, l’evoluzione di questo infimo tipo umano segue il percorso che capovolge la tragedia in commedia mostrando la trasformazione di Joaquin Phoenix, che cessa di essere l’uomo rachitico per diventare Oltreuomo quando accetta il godimento soggettivo che la sua immorale morale gli suscita.
Nietzsche a parte, avverto la necessità di affrontare il tema dell’esistenza di Arthur, del suo frammentario Io così intimo e al tempo stesso pericolosamente universale: è solo, ma come, perché e in che senso? Ma soprattutto, quanto rischia di essere noi stessi?
Joker: L’ammasso psicosomatico e il Sé
“Non esiste l’infante”, sostiene il pediatra Donald Winnicott; ciò che intende è che all’origine della vita, lo stato di non-integrazione e di dipendenza dalla madre del neonato è talmente determinante, che parlare di un’identità vera non è possibile.
Interrogando le origini e la mancanza di origini di Arthur Fleck, forse possiamo contattare il Joker che diventerà con maggior consapevolezza; perché se la sua patologica risata ci risuona così forte, è anche perché il princìpio che determina il corso della sua esistenza, un’adozione vissuta come un tradimento, è la menzogna primaria.
Tutte le scene con la delirante madre Penny mi hanno fatto riflettere sul senso dell’aver cura e dell’essere oggetto di cura, riconoscendo nell’empatia la tenera base di un legame autentico come quello che unisce madre e figlio.
Il problema di Arthur è che questo legame è un castello di carte: così come Happy non è mai davvero stato felice, ugualmente la madre non è mai stata responsiva nei confronti del piccolo. L’ammasso psicosomatico costituito dal caregiver e dall’infans non ha mai seguito il percorso di sviluppo auspicabilmente sano che consentisse al Sé di Arthur di integrarsi.
Forse prima di proseguire una premessa può essere opportuna: queste valutazioni non sono una giustificazione dell’etiologia psichiatrica dei disturbi da cui Arthur è affetto, dalla risata alle allucinazioni passando per la depressione. Si tratta, più semplicemente, di un approfondimento sulla sua storia di vita in quanto Soggetto non completamente soggettivato.
Perché l’integrazione e la soggettivazione sono due processi evolutivi che Winnicott ha studiato bene, e Arthur presenta le debolezze tipiche di un Sé parziale, immaturo e ancora dipendente. La tenerezza e il contenimento annunciati da alcune scene di coppia sono una menzogna, perché la scoperta dei maltrattamenti subiti dal piccolo durante l’infanzia ci mette di fronte alla dura realtà di un’esistenza che non ha nè fiducia nè speranza.
La danza madre-bambino in assenza della madre
Prendendo sempre in prestito dalla psicologia dello sviluppo studi utili all’analisi dell’infanzia di Arthur, mi cimento nella lettura dei traumi del soggetto grazie alle teorie di Daniel Stern, psicologo che vedeva le interazioni tra madre e bambino come una danza utile alla costruzione delle relazioni interpersonali.
Secondo la sua prospettiva, ogni coccola, sguardo, espressione e comportamento della madre attiva una risposta del neonato, e in un percorso sano quest’ultimo acquisisce le nozioni del limite, dell’alternanza e del legame in termini più globali.
Il nostro povero Arthur Fleck questa cosiddetta danza non solo non l’ha sperimentata, ma se dobbiamo dirla tutta l’ha sperimentata in una dimensione tremendamente solitaria: poiché il fondamento delle sue origini è la menzogna, il tradimento che Happy subisce non è solo quello della provenienza, ma anche quello del presunto affetto che la psicotica Penny nutre per lui.
La dialettica tra ricerca dell’Altro e consapevolezza di essere solo alimenterà la vita del ragazzo proprio a partire da questa esperienza primaria traumatica; se quello che ci troviamo di fronte non è tanto un criminale conclamato quanto una normale, mediocre espressione della società nella quale viviamo (alla stregua di Travis Bickle) , è naturale che a spiazzarci sia il movimento esistenziale compiuto da Arthur.
È un movimento atipico, leggiadro come una delle sue danze e letale come la sua filosofia, perché il comico fallito costruisce il suo spettacolo d’eccezione sul suo calpestato non-Io. Tra una sigaretta e un trucco da clown imitando il celebre Murray, Arthur prende la strada del Joker simbolico quando abbraccia il suo passato per disegnare il proprio futuro, sparando a quel De Niro, che guarda caso fu proprio Travis.
Joker: Gettato nel mondo dei Thomas Wayne, come noi tutti
Prima di accostare la figura di questo Joker Nessuno che Arthur Fleck è, delineare un parallelismo tra la sua storia psichiatrica e la foucaultiana storia della follia in relazione alla società civile può assumere senso per leggere la critica sociale in filigrana che Todd Phillips lancia alla comunità nel suo complesso.
Come avviene nel celebre quadro di Gauguin, Arthur prova a trovare nella sua Gotham le risposte sul passato, sul presente e sul futuro; sperimenta le possibilità concrete del suo nobile scopo, con il quale intende donare sorrisi a coloro che lo circondano.
Gotham è lo specchio di una società che mastica i perdenti, gli emarginati e coloro che non hanno risorse per realizzarsi; il non-Io Arthur è immerso in questa fiumana di altri non-Io, e ne esce quando inizia a sua volta a masticarsi, nella propria patologia così come nella vita quotidiana.
Perché se c’è un elemento che ho apprezzato del film, è stata la capacità di Phillips di soffermarsi maggiormente sul fatto che, come il protagonista, siamo tutti gettati in questo mondo capitalista e ingiusto, piuttosto che sulle sottigliezze psichiatriche della psicosi, che emergono in un modo sublime e leggero attravero le allucinazioni di Arthur.
Questo Joker non ancora tale mi trasmetteva più voglia di danzare con lui che di ridere in maniera folle e irrazionale, perché la non-logica di cui è portatore è la sua non-logica, non è la teoria del Caos simbolica e ipostatizzata di Ledger. Il suo non-essere è tale perché è venuto meno il mondo nel quale essere, mentre nel caso di Ledger si è una caotica opposizione alla logica del mondo.
Affidabilità, rapporto figura-sfondo e dialettica tra sanità e patologia: poiché sono queste la parole che mi risuonano adesso, termino quest’analisi confrontandomi con la scottante, speculare questione del mio proprio Joker nello specchio, del nostro demone intimo.
Poiché, come Freud sosteneva nel 1929, in una società folle distinguere colui che è patologico dal resto della comunità è impossibile, come faremo da oggi, ma anche da ieri in verità, ad affrontare l’Altro in noi stessi che potrebbe puntarci contro una pistola in un treno o che, ipotesi addirittura peggiore, potrebbe portarmi a puntare verso l’Altro quella pistola?
Siamo esistenze e non-esistenze drammatiche, attraversati dalla nostra continua sofferenza essendo sempre pronti a colpire i Thomas Wayne che sembrano crogiolarsi in un benessere che secondo noi non meritano, anziché esser pronti a soccorrere l’Altro bisognoso di tenerezza piuttosto che di violenze.
Si aprano le danze, dunque, e che questo Joker possa essere il manifesto capace di mostrarci la strada per raggiungere in noi l’integrazione e l’equilibrio che lui non ha mai avuto: una fatica intima e collettiva, questo dannato lavoro di civiltà, che nel mondo-Gotham attuale risulta sempre più difficile. Eppure, risulta necessario provare.
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