Le favole necessarie di Steven Spielberg.
C’è qualcosa di molto umano e di molto dolce nell’idea di un bambino e del suo amico immaginario. La mente del ragazzo, dalla fervida e anarchica immaginazione, concepisce un’entità fantastica, capace di portare consiglio, divertimento o giusto un po’ di compagnia. Si tratta quasi di una forma di auto-terapia, dove il cervello scherma la psiche da traumi, dispiaceri o altre insidie della realtà sotto forma di un compagno di giochi. Anche la mente di Steven Spielberg, negli anni sessanta, ancora lontano dalla maturità de Lo Squalo e di Incontri ravvicinati del terzo tipo, indulgeva in un simile esercizio. Alle prese con il divorzio dei genitori e la conseguente sensazione di abbandono, il giovane Steven ideò un amico immaginario, piccolo, amichevole ed alieno. Suona familiare, no?
Sì, Spielberg si è basato su una sua creazione fanciullesca durante la produzione di E.T.
Considerando poi le origini di questo personaggio, come soluzione al trauma infantile del divorzio, è facile notare un pattern, non solo all’interno del film del 1982, ma attraverso la sua intera filmografia. Nei film che meglio distinguono la carriera del regista di Cincinnati, quelli mirati a un pubblico fanciullesco e dai toni simili, spesso ricorre un rapporto familiare difficile o completamente assente, la ricerca di un’unità perduta e un genuino apprezzamento per quel senso di meraviglia e per la fantasia che solo i bambini possono avere.
Una volta notato, questo particolare diventa un autentico sintomo della psiche dell’autore: quella mancanza paterna si esprime in un bisogno per il fantastico, nella necessità di qualcosa fuori dal comune per lenire il quotidiano.
Così Elliot, abbandonato dal padre, stringe una forte amicizia con E.T.
Così Peter Banning deve imparare nuovamente come essere Peter Pan, l’eterno fanciullo dell’Isola che non c’è.
Così Indiana Jones riallaccia i rapporti con il padre, attraverso una rocambolesca avventura in cerca del Sacro Graal.
Di conseguenza, le avventure dei personaggi attraverso scenari fantastici sono immerse in un magico realismo, dove le emozioni, le paure e le speranze vengono amplificate dal senso di meraviglia risvegliato dagli eventi a schermo. Prendiamo Jurassic Park per esempio. Il Dr. Grant è lo straight man del film, l’uomo che inizia il film divertendosi a spaventare un ragazzino con un artiglio di velociraptor. Il cinismo, insieme all’atteggiamento scorbutico, viene però lentamente eroso con lo scorrere della pellicola. Da quando osserva per la prima volta i brontosauri, versando una lacrima di gioia, quella scorza dura si erode, sulle scie dell’entusiasmo e dell’adrenalina. Il suo percorso si conclude su un elicottero, accanto a due ragazzi che dormono beati, strappandogli un sorriso. Il senso di meraviglia del Dr. Grant risveglia non solo la passione per la paleontologia, ma anche il senso paterno. Restaurare il bisogno di una famiglia attraverso il più straordinario dei viaggi.
Quel desiderio familiare si lega perfettamente al bisogno del fantastico in Spielberg, al punto tale da diventare il suo marchio di fabbrica. La storia dietro alla produzione di A.I. nel 2001 è emblematica al riguardo. Il progetto nacque intorno agli anni ottanta sotto il controllo di un altro gigante della settima arte, Stanley Kubrick. Kubrick desiderava realizzare una versione contorta e grottesca di Pinocchio, adattandola alla fantascienza e trasformando il burattino di Collodi in un robot. Tuttavia, il progetto è rimasto in limbo produttivo per anni, Kubrick ha cambiato più volte lo staff creativo e ha rimandato più e più volte l’inizio della produzione per altri progetti.
Ciò che attanagliava il regista di Shining era una questione cruciale per il film. Intendeva creare una fiaba oscura ma assolutamente dolce e rincuorante, aggettivi forse poco adatti al resto della sua filmografia. Spielberg, però, sarebbe perfetto per un progetto simile. I due quindi si sono parlati più volte nel corso di due decenni, in particolare immediatamente dopo il rilascio di E.T. e poi di Jurassic Park. Spielberg però rifiutò più volte di dirigere l’adattamento, cercando di convincere il suo collega che era all’altezza delle sue ambizioni. Così Kubrick predispose l’inizio della produzione dopo aver girato Eyes Wide Shut, per poi morire, lasciando la sua opera incompiuta. Almeno, la sua. A.I. ha visto la luce del giorno grazie a Steven Spielberg, che ha raccolto la sua eredità e ne ha reso omaggio.
A.I. è un film controverso sotto molti punti di vista, a causa di toni contrastanti e da tanti piccoli compromessi a livello estetico e narrativo. Tuttavia, nonostante i difetti della pellicola, A.I. mostra in modo genuino e commovente quel bisogno del reale e del familiare di cui abbiamo discusso finora.
David, il bambino robot protagonista, spende buona parte del film alla ricerca della Fata Turchina, capace di trasformarlo finalmente in un ragazzo vero e di poter essere finalmente amato appieno dalla madre. Riesce a trovarla quindi, nelle profondità della città sommersa, tra i relitti di quello che una volta è un luna park. È solo una statua, costruita in un parco giochi ispirato dalla favola di Collodi. David però non demorde, e inizia a pregare.
“Ti prego, ti prego, ti prego, fa’ di me un vero autentico bambino!”
David continuerà a pregare per migliaia di anni, senza demordere. Il suo desiderio di una famiglia, di essere amato, come unica fonte di energia, instancabile e inesauribile. Un gesto genuino e profondamente dolce, sprecato davanti a un cupo e macabro simbolo di una società decaduta e di un destino incurante. Pinocchio non mente più, il suo naso non si allunga, ma rimarrà un pezzo di legno.
Quel desiderio di una famiglia, di un amore vero, brucia ardentemente dentro David e dentro altri importanti protagonisti dei film di Spielberg, perché essi rappresentano forse il più grande desiderio del regista stesso. Vivere con la testa fra le nuvole, tra avventure spaziali e favole moderne, consapevole che la realtà e l’amore ci aspettano a terra. Chiamatela Sindrome di Peter Pan, se volete. Passiamo buona parte dell’infanzia desiderando di crescere. Iniziamo a bere e a fumare da adolescenti per sembrare più grandi, mentre i grandi sognano i rimpianti dell’infanzia.
C’è qualcosa di ironico e prezioso in questa dicotomia, una leggerezza di vita destinata ad essere persa. Spielberg, attraverso la sua specifica impronta narrativa, rappresenta una voce paterna calda e rassicurante. Non dobbiamo per forza crescere in fretta, la vita lo farà per noi col tempo. I padri se ne andranno e le madri moriranno. Quindi perché dire già addio alla nostra gioia infantile, perché dire addio alle favole che ci fanno dormire sonni tranquilli? Magari, leggendole e reinterpretandole oggi, con gli occhi di un adulto e il sorriso di un ragazzo, possiamo trovare di nuovo quella leggerezza, quel senso di meraviglia che ci aiuta a scoprire il mondo e noi stessi. Se c’era una volta un “e tutti vissero felici e contenti“, si può sempre ritrovare, finché si è pronti ad accettare qualcosa di magico.
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