Nata come attrazione da fiera con un futuro incerto, il cinematografo ufficialmente inventato dai fratelli Lumière nel 1895, aveva inizialmente lo scopo di stupire lo spettatore. Assolutamente nient’altro. Tutt’ora quelle visioni così famose e iniziatrici del guardare un evento e registrarlo, sono importantissime per constatare come i nostri avi osservassero ciò che li circondava, da un treno in arrivo alla stazione a degli operai che escono da una fabbrica.
In passato, invece, erano solo l’ennesima attrattiva per persone che potevano vedere sé stesse muoversi all’interno di un’immagine. Infatti, i cinematografisti ambulanti, veri e propri imprenditori di sé stessi che giravano di città in città, riprendevano la vita locale e le persone che ne facevano parte. Quest’ultime avevano voglia di vedersi nello schermo solo per curiosità, per essere sorprese del loro aspetto in movimento. Nessun racconto o narrazione, quindi, ma solo una messa in mostra del quotidiano.
Dal 1895 al 1915 il cinema non si preoccupa di personaggi, di intrecci tra quest’ultimi ed eventuali evoluzioni, ma solo di generare stupore attraverso le immagini. La stessa invenzione del montaggio, ad opera di George Méliès, era uno strumento per scatenare una reazione di meraviglia nello spettatore che vedeva sparire o trasformare un soggetto.
È stato definito montaggio – metamorfosi questo metodo che usava una storia esile come pretesto per trasportare l’illusione del palcoscenico nel cinema: Méliès era infatti un’illusionista prima dell’invenzione del cinematografo. Bisognerà aspettare il 1915 e l’arrivo di Nascita di una nazione di Griffith, per vedere il montaggio come uno strumento narrativo, in cui il racconto e la messa in scena vadano di pari passo, senza che il mostrare sia più importante del raccontare.

Viaggio nella luna di George Méliès
Perciò l’arcano enigma è giunto a una soluzione? L’equilibrio tra i due atti è stato raggiunto? Assolutamente no. Forse non si risolverà mai, e questa dicotomia sarà sempre oggetto di discussione; inoltre, con l’avvento del digitale e del cinema post moderno, i film hanno trascurato spesso la storia in favore della spettacolarità della messa in scena, finendo nuovamente per preferire l’atto di mostrare a discapito di quello del raccontare.
Sono tantissime le opere accusate di questa preferenza, da Avatar a La vita di Pi, per cui, secondo molti, la bellezza delle immagini ricreate attraverso il digitale non sono supportate dal racconto, il quale è usato, come nell’opera di Méliès, a pretesto per meravigliare lo spettatore e lasciarlo ammaliato da un’estetica effimera che prima o poi è condannata a svanire.
Essendo il cinema un’arte che incontra il gusto di culture diverse, la soggettività della nostra visione determina il nostro giudizio in merito all’opera; ma è anche vero che spesso, dietro un film appariscente, si nasconde pochissimo, ed è il tempo a decretare se l’opera possa rimanere nella memoria collettiva di diversi popoli.

Avatar
Quest’oggi ci chiediamo se uno dei film favoriti agli Oscar 2020 sia proprio inseribile in questa categoria, parliamo di 1917 di Sam Mendes, in cui le linee guida seguite dal regista sono raccontare e mettere in scena la drammatica esperienza militare di un parente, affrontare la prima guerra mondiale e fare del piano sequenza fittizio un metodo per coinvolgere lo spettatore all’interno della trincee. Tutto corretto, forse fin troppo. Se l’intento virtuoso di Sam Mendes era quello di raccontare l’accaduto di suo nonno, 1917 non sembrerebbe affatto uno dei tanti film appariscenti che antepone la messa in scena al racconto; tuttavia, pur con la fotografia magistrale di Deakins e la regia che finge di attraversare l’intera vicenda senza tagli di montaggio, 1917 non pone nessun interrogativo e rimane solo il coinvolgimento meraviglioso, ma destinato a scomparire.

1917
Il war-movie è un sotto-genere che ha spesso due strade d’approccio: una legata all’orrore e all’importanza di muovere un conflitto “giusto”, mentre l’altra interessata a tutte le contraddizioni, egoismi e inutilità nel sottoporsi all’atto della guerra, giustificato dal nostro desiderio di supremazia.
1917 sceglie la prima strada e finisce per raccontare pochissimo, mostrando però meraviglie su meraviglie che non pretendono di riflettere su nulla o quasi. Questa preferenza determina il film di Mendes non come un’opera pessima o mediocre, ma limitata, così com’erano limitate le stupende illusioni di Méliès volte solo a mostrare una storia anziché raccontarla. 1917 ti coinvolge, ti stupisce in tantissime occasioni, ma poi usciti dalla sala e a distanza di settimane io ho ancora Marriage Story di Noah Baumbach nei pensieri.
La bellezza di 1917 ha fatto subito spazio a qualcosa su cui pensare tanto a lungo. Forse è questa la chiave per comprendere quanto un’opera sia determinante per noi: non se diretta con grandissimo gusto o fotografata con tecniche all’avanguardia, ma se riesce a imprimersi nella nostra mente generando riflessioni su riflessioni, come quell’osso che diventa astronave in 2001 – Odissea nello spazio.
Facciamo un altro salto nel passato e ritorniamo a riflettere sulla trilogia di Matrix che racchiude due tipi di cinema: quello analogico che ha bisogno di una storia, di porre domande allo spettatore e di riflettere insieme a lui sulle dinamiche dell’intreccio, e quello virtuale che preferisce la spettacolarità dell’azione, portata a compimento dal bullet time. Matrix è l’esempio definitivo d’innovazione della messa in scena e di un racconto colmo d’ispirazione come il mito della caverna di Platone. Pur proseguendo un discorso antichissimo e proposto numerose volte, l’opera delle Wachowski ha dimostrato di aver raggiunto un compromesso tra il mostrare e il raccontare.
Se 1917 avesse lo stesso destino, tra molti anni potremmo ridiscutere di questa dicotomia e proporre come esempio proprio l’ultima opera di Sam Mendes che fatica, fino a oggi, a essere fonte di spunti di riflessioni che esulano dall’orrore della guerra che non conosce misericordia anche durante un’azione di bontà d’animo.