Il cinema di Stanley Kubrick ha un elemento centrale, attorno al quale si dirama tutto il resto. Questo elemento è la ricerca della conoscenza. Non importa se siamo su un astronave nello spazio o in un campo di battaglia della guerra del Vietnam; la ricerca della conoscenza è sempre presente e spesso è causa motrice di azioni fondamentali compiute dai protagonisti.
Questo concetto è strettamente collegato a un altro tema che ricorre spesso nel cinema di Stanley Kubrick, e in special modo nei finali dei suoi film: il tema della “regressione”. Ci accorgiamo, guardando alcune delle sue pellicole, che nei finali è spesso presente una sorta di componente legata a doppio filo con l’infanzia. È solo un caso? Trattandosi di Kubrick, questa ipotesi è da scartare all’istante. Cerchiamo di capire che cosa possa collegare alcuni dei finali del Maestro, filtrandoli attraverso i temi della ricerca della conoscenza e della regressione.
L’eterno ritorno dell’uguale come preservazione del sapere
In 2001: Odissea nello Spazio l’astronauta Bowman (letteralmente “uomo-arco”) è finalmente, dopo mille peripezie, entrato in contatto con il misterioso monolite nero. Una volta stabilitosi questo “ponte” tra la coscienza di Bowman e l’enigmatico oggetto, il nostro astronauta intraprende un viaggio fatto di luci, immagini oniriche e luoghi inaccessibili per chiunque. Il suo vagare termina in una misteriosa sala dall’arredamento rinascimentale. Qui Kubrick, tramite l’utilizzo di alcuni controcampi, ci mostra il trascorrere del tempo. Bowman invecchia, consuma il suo ultimo pasto, giace sul letto. Muore. Rinasce. Bowman diventa lo starchild, il bambino delle stelle, formatosi nel feto astrale.
Consideriamo ora l’opinione di uno dei più grandi pensatori del Novecento. Sigmund Freud parlava di cinque fasi in cui si sviluppa la conoscenza, in particolar modo quella sessuale. Si parte dal momento in cui si è molto piccoli (fase orale), quando siamo inconsapevoli della realtà che ci circonda, per poi proseguire con le varie fasi man mano che si diventa più grandi (fase genitale). La costruzione della scalinata del sapere ideata da Freud è molto precisa: la struttura di questa progressione lascia presupporre che, naturalmente, ogni grado di conoscenza acquisita sia strettamente connesso con quello precedente, perché è da lì che si parte, il quale a sua volta è indissolubilmente legato a quello ancora precedente e così via.
Nella mente di Stanley Kubrick il connubio conoscenza-infanzia è abbastanza evidente. Ricordiamo che nello stesso 2001, quando HAL 9000 sta per essere terminato inizia a cantare una filastrocca per bambini. Quindi la “regressione” di HAL 9000 è il simbolo della perdita della conoscenza, come una sorta di ritorno alla fase orale. Ma, nel caso di Bowman, è anche un nuovo inizio. L’infanzia è sia fine che inizio, e il tutto è destinato a ripetersi in una ciclicità inarrestabile. È l’universo che nasce e muore infinite volte, annullando per sempre il concetto del tempo inteso come linea verticale. Siamo al cospetto dell’eterno ritorno dell’uguale, lo stesso di cui parlava Nietzsche nel suo Così parlò Zarathustra, che non a caso è anche il titolo del celebre brano d’apertura del film.
Questa struttura circolare del sapere è presente anche in Arancia meccanica, il film immediatamente successivo a 2001. Alex, dopo essersi sottoposto alla Cura Ludovico, tenta il suicidio fallendo nell’intento. Durante il periodo della riabilitazione, assistiamo alla regressione di Alex, sia da un punto di vista fisico che mentale. Paralizzato dalle ferite, il protagonista viene imboccato durante i pasti, come si fa con un neonato; gli vengono mostrate delle figure per consolidare il suo sapere, e durante la terapia riacquisisce quegli antichi pensieri di perversione e caos che aveva perduto. In questa fase, vediamo Alex riattraversare praticamente tutte le fasi descritte da Freud.
Man mano che la sua salute migliora, Alex riprende possesso dei suoi arti e del suo corpo, con i quali ritrova quella conoscenza che aveva perduto. Le idee di omicidio, stupro, ultra-violenza si ripresentano alla mente, dopo essere state allontanate. Ritorna a essere lo stesso personaggio di prima; una figura amorale (come lo è sempre stato del resto) senza però i vincoli mentali imposti dalla Cura Ludovico. Si dimostrano, in questo modo, le parole di Nietzsche che, in Così parlò Zarathustra, afferma:
«Vedi, noi sappiamo ciò che tu insegni: che tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e che noi siamo stati già, eterne volte, e tutte le cose con noi. Tu insegni che vi è un grande anno del divenire, un’immensità di anno grande: esso, come una clessidra, deve sempre di nuovo rovesciarsi, per potere sempre di nuovo scorrere, per potere sempre di nuovo scorrere e finire di scorrere.»
Il ritorno nella caverna come difesa dello spirito
Nel mito della caverna di Platone, l’uomo comincia il suo cammino verso la vera conoscenza solamente quando si rende conto che tutto ciò che ha sempre creduto essere vero è, in realtà, falso. Solamente quando esce dalla caverna, si specchia nell’acqua, guarda il sole, inizia a conoscere. Quello che Platone manca però di sottolineare è che, molto spesso, la rivelazione della vera realtà non è poi così appagante.
Ne sa qualcosa il soldato Joker di Full Metal Jacket. Un personaggio fragile, difeso da una corazza fatta di spocchia e arroganza. Lui e i suoi compagni si rendono conto che il Vietnam non è come era stato descritto loro, non è un posto esotico in cui godersi il mare e il sole, a suon di musica rock, tra un bombardamento e un altro. Stanley Kubrick ci mostra che non c’è il sole, nascosto dalla polvere delle esplosioni. L’onore delle gesta eroiche in battaglia non è altro che mera propaganda, e il tutto si riduce unicamente all’uomo che uccide un suo simile.
Nel finale di Full Metal Jacket avviene qualcosa di molto singolare. Il plotone del soldato Joker, dopo essere stato decimato in uno scontro contro un misterioso cecchino, si ritira dal campo di battaglia. Tutti i componenti rimasti in vita sono molto pensierosi. Pensano agli amici perduti quel giorno, constatano il fatto che il cecchino non fosse un terribile mostro dalla faccia gialla (come vuole la propaganda), ma una giovane ragazzina.
Il soldato Joker, che ha ucciso la ragazzina, ripensa a tutto questo e, quasi come un automa programmato, inizia a intonare la celebre sigla di Mickey Mouse. In poco tempo anche il plotone lo raggiunge nella sua cantilena infantile. Tutti i soldati sono ritornati bambini. Sono regrediti a quell’età dove tutto, anche il gesto più terribile, è ovattato. Come se necessitassero di una disperata protezione dello spirito, i soldati ricominciano a vedere la guerra come un gioco, non curandosi del fatto che non sia così. In questo modo, il soldato Joker non avrà mai più paura. Né del mondo né di se stesso.
Concludiamo con l’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut, il film sull’ossimoro della vista. Nel finale del film la coppia protagonista ha assunto piena coscienza del fatto che il proprio matrimonio sia stato un disastro. Il sentimento si è sgretolato in una spirale di sospetti e accuse silenziose. La maschera delle menzogne è stata tolta dal volto del debole marito, ipnotizzato da ciò che non avrebbe dovuto vedere e sopraffatto da ciò che crede di aver visto. Il tradimento che ha messo fine de facto all’amore tra i due non è stato tanto carnale, bensì spirituale. La fiducia reciproca non è più la reggente del rapporto che tiene unita la coppia. Tutto ciò che avverrà in seguito sarà tremendamente superfluo e banale tra i due.
«C’è una cosa molto importante che noi dobbiamo fare il prima possibile.»
«Cosa?»
«Scopare.»
Questo dialogo è l’esemplificazione del mesto ritorno in una caverna di menzogne, far finta che nulla sia successo, che però non equivale affatto al perdono. A una realtà dolorosa è forse preferibile una felicità apparente. E l’ultima parola del film, quel “Fuck” pronunciato da una Nicole Kidman così determinata nel perseguire la disillusione, viene detta in un centro commerciale, nella fattispecie nel reparto giocattoli, lì dove i bambini sono sapienti architetti di una realtà incantata, dove la sofferenza non potrà mai penetrare.
Il perché Kubrick abbia inserito questi elementi per concludere alcune delle sue opere più celebri non ci è dato saperlo. Magari era rimasto affascinato dai grandi pensatori che lo avevano preceduto. Oppure lui stesso credeva fermamente, da un punto di vista puramente intellettuale, che la mente umana funzionasse davvero in questo modo. Trattandosi di Stanley Kubrick, queste interpretazioni, così come le innumerevoli altre possibili e argomentabili, si muovono nell’ombra di quella costante ambiguità che ha caratterizzato il maestro. E a noi, ancor più pieni di incertezze dopo aver formulato i nostri ragionamenti, sta bene così. Perché è proprio dell’ambiguità oscura, la stessa del monolite, che ci nutriamo. E il resto conta poco.