Memorie di un assassino è considerato quasi all’unanimità il primo capolavoro di Bong Joon-ho, il film che ha dato inizio all’inarrestabile percorso che ha condotto il regista di Parasite a ben quattro premi Oscar.
Protagonisti del film sono due investigatori dai metodi abbastanza superficiali, impelagati in un labirintico caso senza soluzione. I corpi di giovani donne vengono ritrovati in condizioni pietose; le loro ultime ore sono trascorse in un completo stato di agonia e le terribili violenze che hanno subito sono evidenti. Un terzo investigatore, dai metodi forse ancor più controversi rispetto a quelli dei suoi colleghi, comincia a indagare per arrestare questa terribile scia di sangue.
Parlando della trama di Memorie di un assassino appare abbastanza difficile pensare che possa trattarsi di un capolavoro. Abbiamo due schieramenti, composti rispettivamente dai buoni (gli investigatori) e i cattivi (l’assassino e chiunque ne ostacoli la cattura), e lo svolgimento a cui assistiamo è una lunga partita a scacchi tra queste due formazioni. Insomma, uno schema abbastanza comune, anche per un film uscito nel 2003, quando cioè Il silenzio degli innocenti e Seven erano già considerati cult.
Eppure chi, come Quentin Tarantino, definisce Memorie di un assassino un capolavoro non si sbaglia affatto. Cosa lo rende tale? La messa in scena precisa e tragica di Bong Joon-ho? La bravura degli attori? O altro ancora? Proviamo a scavare in profondità, andando oltre la superficie della trama “semplice” che attraversa il film.
I “buoni” e l’assenza di morale
Nei thriller basati su indagini, i protagonisti, spesso uomini di legge, si trovano dinanzi a un bivio, costretti a scegliere se proseguire come da protocollo o se violare i confini di quello stesso sistema che loro dovrebbero proteggere. Spesso bisogna agire in modo “scorretto”, svincolandosi da regole oppressive che limitano la capacità di azione per garantire la cattura dell’assassino. In questo caso la morale personale degli uomini, completamente asservita alla giustizia, fa sì che venga violata quella morale imposta dalla legge, esattamente come afferma Kant nella Critica della ragion pratica.
In questo concetto troviamo la prima analogia, ma soprattutto la prima grande differenza che lega Memorie di un assassino alla scia di un thriller canonico. Gli ispettori hanno dei metodi abbastanza controversi. Il loro modo di agire sconfina abbastanza spesso non solo oltre la legge dello stato (la Corea del Sud), ma arriva a intaccare persino i più basilari diritti di cui gode qualsiasi cittadino di un paese civile.
Questo comportamento è, in parte, se non giustificabile, quanto meno comprensibile. La burocrazia coreana stritola in modo violento la macchina statale, avvolgendola in una morsa talmente stretta da rallentare in modo esponenziale le indagini. Persino in casi molto più semplici ci sarebbero state difficoltà. Non si può non biasimare dunque chi in questo sistema è costretto a lavorare da una vita. In aggiunta a tutto ciò bisogna considerare il numero crescente di omicidi, il brancolare nel buio più totale, la pressione crescente dei media.
La morale dello stato viene quindi superata, ma è qui che si ferma tutto ciò che c’è di canonico in Memorie di un assassino. Infatti questo travalico non è dettato da una legge morale diversa, che scuote gli spiriti dei protagonisti, bensì ne è l’esatto opposto, è l’assenza di una qualsiasi morale, la perdita della fiducia verso qualsiasi punto di riferimento.
La vista del Male, o meglio, gli effetti che ha causato il Male sulle sue vittime, cambiano radicalmente il modo di ragionare e di agire dei protagonisti. Di fronte a una forza così crudele e prorompente non bisogna essere da meno. Ecco quindi spiegata la crudeltà dei cosiddetti “buoni”, i difensori della legge, che torturano un ragazzo con degli handicap cognitivi, estrapolandone una confessione (ovviamente falsata dalla tortura stessa, come ci insegna Beccaria).
Questo concetto, ovvero quello del male causato dall’assassino che intacca la psicologia di chi lo insegue, è espresso in maniera magistrale. Molto più preciso e forte rispetto anche a film blasonati come Seven, in cui il twist che riguarda il personaggio di Brad Pitt, con l’abbandono della morale, è causato dalla perdita di un affetto. Pertanto il serial killer del cult di Fincher aveva deciso di colpire sul personale colui che gli dava la caccia.
In Memorie di un assassino no. Nessun affetto appartenente alla famiglia degli investigatori viene minacciato. L’annichilimento e lo sprofondamento dello spirito parte dall’impossibilità di trovare un colpevole, dall’assenza delle istituzioni, dall’inconcepibile crudeltà che non ha più nulla di umano.
Forse l’effetto è meno disturbante di quello che potrebbe provocare un Seven, ma il concetto del Male assume qui connotati ancor più terribili.
I “cattivi” e la banalità del Male
Il Male, dunque. Più è immenso e feroce e più è banale, ci ricorda sempre la dolorosa lezione di Hannah Arendt. Memorie di un assassino centra in pieno anche questo punto. Non ci troviamo di fronte a un serial killer che intende l’omicidio come una sorta di “sperimento sociale”, o per dimostrare qualcosa. Non siamo neanche al cospetto di un personaggio come il Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti, che sentiva ogni omicidio come un passo in avanti verso una metamorfosi (fisica e mentale).
Il nostro assassino non è niente di tutto questo. È un serial killer perfettamente accumunabile a quelli che sentiamo quotidianamente ai telegiornali. Una persona che nella vita di tutti i giorni magari si comporta normalmente. Magari ha anche una famiglia. Un individuo perfettamente uguale a tanti altri, uno spettro che quindi può agire indisturbato.
Gli omicidi collegati a lui si sono consumati sempre durante notti piovose, quando la radio trasmetteva sempre la stessa determinata canzone. Il perché di questa causa scatenante dei suoi raptus non ci è dato saperlo. Forse un trauma nel suo passato, magari una violenza subita in quelle stesse circostanze. O magari niente di tutto questo, perché forse è solamente una banale coincidenza.
Questa costante sospensione delle certezze rende perfettamente l’idea di un Male inafferrabile, sfuggente, incomprensibile alle persone dotate di un minimo di buon senso.
È una forza parecchio banale, questo Male. Proprio per questo motivo appartiene agli uomini, il cui sonno della ragione è in grado di generare i mostri più terribili.