David Lynch e la pittura come chiave cinematografica

Chiara Pili

Marzo 24, 2020

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Nonostante siano in pochi a esserne a conoscenza, il percorso cinematografico di David Lynch prende il suo avvio a partire da altre radici artistiche, in particolare dalla pittura. “Iniziata alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia nel 1965, l’attività di artista figurativo lo porta a dipingere tele di grandi dimensioni con sfondi a corpose pennellate nere, abitate da figure inquietanti. Durante gli studi presso la Pennsylvania Academy viene a conoscenza dell’arte dei grandi Action Painters americani, come Jackson Pollock, con le sue accumulazioni seriali di materia e colore attraverso la tecnica del dripping; o Franz Kline, dal segno prorompente che porta dentro sé il concetto stesso di azione”.

“Il fermento del movimento informale a cui facevano seguito questi artisti, si era da poco esaurito se si considera come epilogo il 1961, con la rassegna American Abstract Expressionists and Imagists al Guggenheim Museum di New York. La poetica informale aveva spalancato le porte a un nuovo approccio alla pittura, che prevedeva lo scontro sia corporeo che carnale con la materia, l’esaltazione dell’esistenza dell’artista attraverso l’immersione nel segno o nella pasta materica della propria opera”.

“Lynch, nella sua espressione pittorica, pur non essendo totalmente influenzato dall’operatività artistica di Pollock e Kline, interiorizza quel meccanismo di immersione-scontro con il mondo, che è proprio della poetica informale, indagando il reale nei suoi nodi più nascosti e più vitali, mostrando l’angoscia e la tensione esistenziale della vita contemporanea”. 

I dipinti di David Lynch sono per la maggior parte caratterizzati da dimensione molto ampia e da colori lividi e molto scuri, che si rifanno metaforicamente al buio pesto. “Il nero è il colore dominante, e la riconoscibilità delle figure è quasi totalmente bandita. Il colore serve per svelare ciò che fuoriesce dalla superficie scura. L’artista sembra ritenere il colore troppo limitante, troppo reale, poco onirico e surreale. La dimensione onirica che apre il nero è la conseguenza della negazione di qualunque colore e rappresentatività, l’interpretazione del quadro diviene possibile solo entrandoci dentro immergendosi e immedesimandosi, senza cercarne un’interpretazione razionale”. 

“Il nero mette in crisi la percezione ottica e lo sguardo viene inghiottito in un vertice, l’occhio assume quindi una nuova funzione, oltre a quella visiva, e si fa tattile, toccando le forme e i colori. Nei dipinti l’occhio viene attratto dalla materia coagulata, dai corpi deformati che si fanno frammento, quindi potenzialmente corpo”. Per Lynch l’atto del dipingere è lo strumento che allude alla dimensione onirica, manifestando nei suoi quadri come un vero e proprio scarto dimensionale; questo aspetto sarà riconoscibile anche nei suoi film, si pensi a Eraserhead (1977), oppure Mulholland Drive (2001). 

La pittura diviene il mezzo per fissare idee e immagini, colte nel momento in cui gli occhi si chiudono, aprendosi verso la visione interiore dell’artista. Un gioco visionario eseguito anche dagli artisti espressionisti, che indagano la profondità dell’animo umano, fino ad arrivare alla parte più viscerale. “La pratica pittorica si manifesta come un vero e proprio scontro carnale e fisico con la tela, il pennello rappresenta una barriera, un ostacolo, e allora la stesura del colore avviene quasi completamente con le dita, in un’azione dal sapore infantile e ancestrale, per poter comunicare in maniera ancor più intima con la tela. Il suo metodo operativo permette di dialogare con il caso. I dipinti derivano dall’azione e dalla reazione del colore, sotto la guida dell’artista, che instaura con esso un rapporto reciproco di scambio”. 

Interrogato e incuriosito dal valore che la pittura assume nella sua vita, Lynch afferma:

«In pittura esistono elementi che valgono per ogni aspetto della vita […] Ci sono cose che non possono essere espresse con le parole. È all’incirca questa la natura della pittura; ed è, per quanto mi riguarda, in gran parte anche quella del fare cinema. Ci sono le parole e ci sono le storie, ma ciò che puoi dire con un film non lo puoi esprimere a parole. È proprio qui che sta il bello del linguaggio cinematografico: e ha a che fare col tempo, col concetto di giustapposizione e con tutte le regole della pittura. La pittura è un’arte che si trascina dietro tutte le altre».

“La pittura viene dunque considerata dal regista come l’atto creativo primordiale; il cinema, in quanto erede della pittura riesce a isolare i frammenti (fotogrammi) mostrando i rapporti molteplici che costituiscono il reale, ricomponendoli sullo schermo”. L’azione d’indagine sotto il tessuto fibroso della realtà si muove partendo dallo sguardo del pittore, con tutte le conseguenze che riguardano il ritmo e la composizione, non solo nei suoi quadri, ma anche nella sua produzione cinematografica. 

“Durante gli anni Ottanta e fino alla metà degli anni Novanta l’attività pittorica di David Lynch è basata sul tema ricorrente della casa, in riferimento ai ricordi dei luoghi dell’infanzia come Boise, Idaho e Spokane, Washington. Nel dipinto Shadow of a Twisted Hand Across My House (1988), si avverte subito una sensazione di pericolo; in primo piano all’estrema destra della tela spicca una mano stilizzata dalla forma irregolare che con aspetto minaccioso si avvicina a una casa, accennata da pochi segni”. Sul vertice opposto, quasi come a vegliare sulla scena, troviamo un sole, restituito come se fosse un granello materico, che anziché illuminare la scena, contribuisce a creare una condizione intimidatoria. Lo sfondo è scuro, terroso e mosso da pennellate orizzontali. 

David Lynch intuisce il proprio potenziale cinematografico grazie allo studio e all'utilizzo assolutamente personale dell'arte pittorica.

Shadow of a Twisted Hand Across My House, 1988, olio e materiali vari su tela, cm 168×213

“Suddenly My House Became a Tree of Sores (1990) presenta uno sfondo  molto simile all’opera precedentemente descritta, ma in questo caso l’impeto della scena non è causato da una minaccia esterna, ma nasce dalla casa stessa, che subisce una trasformazione “fisica” ed esorta le forme di vita che la abitano, degli esseri informi e slanciati, a uscire da essa con uno fervore disperato”. 

Suddenly My House Became a Tree of Sores. 1990, olio e materiali vari su tela, cm 163×167

“Ants in My House (1990) mostra al centro la struttura di un’abitazione dalle pareti quasi inesistenti, divorata da formiche stilizzate, posizionata tra due segni chiari verticali (forme assolutamente non chiare ed identificate) che la proteggono, oppure contribuiscono al suo essere annientata”. 

Ants in My House, 1990, olio e materiali vari su tela, cm 99×122

Nota: questa prima parte di analisi è un estratto del saggio “David Lynch, dalla tela all’inquadratura” scritto da Caterina Rossi (articolo tratto da Moviement – David Lynch, Taranto, 2009, pp. 26-33).

Six Men Getting Sick: il paesaggio del corpo

La parola italiana «paesaggio» contiene in sé il termine «paese» che deriva dal latino pagus (villaggio). Il paesaggio, inteso anche come tema pittorico, non è mai completamente estraneo all’elemento umano. Ogni paesaggio è allo stesso tempo naturale e antropomorfo. Inoltre, come lo stesso Lynch afferma, l’elemento umano e l’elemento naturale non si confondono nel paesaggio, ma si mostrano uniti dallo stesso sguardo. Nei primi lavori di Lynch emerge con forza la problematica dello sfondo, dell’inquadratura come paesaggio. 

Già in Six Man Getting Sick (1967-noto anche come Six Figures)primo cortometraggio dell’artista in forma di videoinstallazione, è il rapporto stesso tra cinema e pittura a essere messo in discussione. I corpi delle sei figure che compongono la scena non si stagliano contro nulla; non c’è sfondo, non c’è paesaggio. I bordi dell’inquadratura contengono i torsi, le braccia, le teste dei personaggi. Sono solo questi elementi a comporre la scena, l’inquadratura riempie tutto lo schermo. Il film, o meglio dire la pittura in movimento, mostra sei figure che si muovono, si contorcono, vomitano. Si distinguono solo le braccia e le teste. Muovendosi, le figure sembrano uscire dallo schermo e prendere vita. 

In origine il film doveva essere proiettato su uno schermo in rilievo da cui emergevano delle teste e delle braccia; rilievi a cui aderivano le figure in movimento, creando così oggetti corporei in continua trasformazione. Una visione del cortometraggio può condurre alla conclusione che la prima forma del paesaggio è l’immagine del corpo smembrato, il corpo come oggetto in movimento, isolato come dettaglio, che diventa allo stesso tempo astratto e concreto, fisico e immateriale. Un sottofondo repulsivo, il suono costante di una sirena, è il simbolo in nuce del rapporto di scambio fra Lynch e il sonoro, che qui vede il germoglio del florido arbusto futuro.

The Alphabet: il corpo della lettera

Dopo Six Men Getting Sick, l’universo dei corpi in Lynch acquista nuove e più complesse configurazioni in The Alphabet (1968), cortometraggio realizzato con il generoso aiuto di un mecenate locale, H. Burton Wasserman, favorevolmente colpito dal primo film painting del giovane artista. La storia è nota: partito con l’idea di realizzare un nuovo lavoro sulla falsariga di Six Men Getting Sick, Lynch, assolutamente digiuno di tecnica cinematografica, compra una cinepresa tanto difettosa da rendere inutilizzabile il materiale girato. Con il denaro rimasto decide allora di realizzare un cortometraggio vero e proprio, tralasciando (per il momento) la tecnica del film painting.

Il film, della durata di appena quattro minuti è, come dice Michael Chion, complesso e strutturato: «Groviglio di tecniche, forme, ritmi, tutto sconcerta e rende difficile un’assimilazione rapida del film a un’idea o a un concetto. Il suono ha un che d’incombente e d’intenso, raro nei film d’animazione “artistica” in cui è generalmente semplice e rarefatto». Nella rapida successione di immagini e suoni, figure animate e corpi umani, alcuni elementi colpiscono particolarmente e si inseriscono perfettamente all’interno del nostro discorso. Alternato al suono di un gruppo di bambini che intona una famosa filastrocca infantile sull’alfabeto (A,B,C), prende corpo nel film un’immagine animata antropomorfa, che spicca in uno spazio creato da linee diagonali. 

La figura si crea gradualmente e si modifica in continuazione, in particolare la testa cambia forma e contorno, modificandosi senza interruzioni per tutta la durata dell’inquadratura. Accanto alla figura antropomorfa, tutte le lettere dell’alfabeto vengono, letteralmente, generate, prodotte, create non più come segni artificiali, ma quasi come esseri viventi che tormentano la giovane donna in camicia da notte sdraiata sul suo letto, o che si muovono in uno spazio animato che si auto-genera continuamente. Le lettere acquistano una ulteriore connotazione oltre a quella di segno convenzionale e astratto: diventano propriamente corpi.

D’altra parte, il corpo stesso (e il corpo umano in particolare), nel film subisce un processo di astrazione senza perdere le proprie caratteristiche materiali: la figura, evidentemente in stile Francis Bacon, che muta (cresce) in continuazione, la donna (in carne e ossa) dal trucco stilizzato e dalle movenze innaturali; sono queste tutte immagini di un corpo che diventa segno, che subisce un processo di alterazione e di astrazione. E, parallelamente, di un segno linguistico, la lettera, che diventa corpo, materia; e che, come tale, minaccia e punisce il corpo divenuto astratto. 

The Alphabet inaugura in questo senso uno spazio filmico in cui i corpi si trovano in conflitto, ma sullo stesso piano. Il meccanismo della parola, o delle lettere, è un meccanismo dunque terribile: l’ufficiale kafkiano, che prova su se stesso la macchina, muore trafitto dagli aculei che incidono la sentenza sulla nuda carne; la giovane donna di The Alphabet è minacciata dalle lettere dell’alfabeto e dalla sua bocca escono fiotti di sangue.

Il doppio movimento confluisce nello spazio del film, che Lynch identifica immediatamente come spazio particolare, materiale e immateriale insieme, in cui il segno e il corpo condividono la medesima natura e in cui è perciò possibile indagare le forme, le connessioni e i legami di ciò che apparentemente appartiene a mondi ontologicamente distanti. Per quello che riguarda il corpo, Lynch ritrova nel cinema una doppia dinamica che fa esplodere la pittura dei corpi e dei volti, accentuandone ora la corporeità ora l’astrazione.

 

Leggi anche: Il Significato di Mulholland Drive – Tra Realtà e Finzione

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