Sinfonia d’autunno.
«Io ti porto sulla fronte
come una ferita che non si chiude.
Non sempre duole. E il cuore
non ne muore dissanguato.
Ma ogni tanto d’improvviso son cieco e mi sento
del sangue in bocca».
(Gottfried Benn- “Madre”)
Eva ha sposato un pastore luterano, Viktor, parecchio più anziano di lei, e con lui vive in maniera modesta, occupandosi della sorella minore, inferma, e del ricordo di Erik, il figlio che ha perso qualche anno prima, e di cui continua a sentire la presenza. È una donna genuinamente religiosa: si prende cura con amore dei suoi cari, è ligia al proprio dovere di moglie e sorella maggiore. Questo pio equilibrio viene turbato dall’arrivo della madre Charlotte.
Charlotte, interpretata da una straordinaria Ingrid Bergman, è una pianista di fama internazionale, che decide, dopo sette anni di assenza, di far visita alla figlia perché ha appena perso il suo compagno: è nevrotica, fremente, piena di sé, incapace di qualsiasi comunicazione emotiva, eccetto che con la sua musica, l’unica che abbia mai mostrato di amare, e che occupa la sua vita in modo totalizzante.
Uno dei temi principali di Sinfonia d’autunno (1978) è proprio la musica, o meglio la musica classica, del resto già declamata dal titolo.
I brani che costituiscono la colonna sonora del film sono pochi e grandiosi, prevalentemente brani di Chopin e Schumann. Il Preludio n.2 di Chopin, in particolare, ha uno statuto speciale, è il terzo protagonista del film: è il personaggio che incrina l’equilibrio emotivo, già molto precario, tra madre e figlia fino a comprometterlo definitivamente. Entrambe le protagoniste suonano questo brano, e la differente interpretazione rende chiare le loro sofferte dinamiche emotive: Eva è totalmente succube dell’ego materno, che la rende goffa, impacciata e intimidita, come una bambina.
Ma già nella prima sera di permanenza di Charlotte, nel momento della giornata in cui siamo più vulnerabili, Eva trova la forza di affrontare la madre, con il proprio stile: non grida, non fa smorfie. Le parla sussurrandole tutto il dolore che le ha causato: la sua assenza continua per i concerti in giro per il mondo, la lontananza emotiva quando era presente, la sua incapacità di riconoscersi come madre e di occuparsi di lei.
La sua invidia latente per ogni vita che crede più serena della sua, anche quella della figlia.
Questo confronto è il cuore pulsante del film e si consuma in un’atmosfera intima, che stride con la freddezza del rapporto tra i due personaggi: madre e figlia sono in vestaglia, con i capelli scomposti, e la sala da pranzo – perché è lì che si trovano a parlare, a causa dell’insonnia – è immersa nell’oscurità.
Solo alcune candele ci permettono di distinguere i due personaggi, lasciando nella penombra tutto quello che non sia il loro volto: il regista gioca a esibire un profondo contrasto (ma questo avviene per tutta la durata del film) tra la complessità delle trame psicologiche delle protagoniste e la chiarezza delle riprese, che consistono prevalentemente in un susseguirsi di primi piani.
Bergman si sofferma con lunghe inquadrature sui visi delle due donne: i volti sono puliti e chiari, i colori tenui, le espressioni composte. Il risultato è la creazione di un’atmosfera da camera intima ed essenziale che riesce, limitando gli spazi scenici, a focalizzare tutta la nostra attenzione sui personaggi, mantenendo nell’ombra ogni altra distrazione.
Eva: «Una madre e una figlia… Che sconcertante, terribile combinazione di sentimento, di confusione, di rovina. Le ferite della madre le soffre la figlia, le delusioni della madre ricadono tutte sulla figlia, l’infelicità della madre si trasmette alla figlia. È come se il cordone ombelicale non si fosse mai spezzato. Mamma, è così? La sconfitta della figlia è il trionfo della madre? Mamma, il mio dolore è un tuo piacere segreto?».
Con questo straziante dialogo, nello straordinario stile di Ingmar Bergman, pieno di dolore senza essere patetico, il regista ribalta i nostri giudizi psicologici, fino ad allora abbastanza chiari e definiti: un’incredibile Ingrid Bergman, che fino ad ora ha mantenuto uno sguardo glaciale, mostra quello che non vorremmo vedere, un’ombra nei suoi occhi, e porge a Eva il suo cuore tra le mani: «it was all done in the name of love».
Charlotte decide di andarsene la mattina seguente. Eva è distrutta dal dolore: si rifugia nella solitudine, esce di casa e per molto tempo fissa il vuoto.
Eva: «Non posso morire adesso. Credo di aver voglia di uccidermi. Spero che Dio un giorno abbia bisogno di me e mi liberi da questa prigione».
Nel momento in cui Charlotte sceglie di andarsene, Eva ritrova se stessa, mostrandoci quello che forse è l’unico modo di riuscire ad amare quando un rapporto si è logorato, e lo strazio dell’incontrarsi supera qualsiasi forma di piacere: il perdono incondizionato. Un perdono incondizionato, non cieco: Eva può sceglierlo solo dopo aver rivissuto la sua infanzia attraverso il dialogo nella notte con Charlotte. E perché è un personaggio capace di provare amore.
Difficile capire come Eva riesca ad arrivare a questo perdono incondizionato. Esiste un percorso da seguire per riuscire a perdonare? O il perdono è una scelta assoluta, per cui non è necessario attraversare alcuno stadio intermedio e non esiste una “fine del percorso”?
Sicuramente il perdono diventa una scelta possibile per Eva nel momento in cui si rende conto della fragilità di Charlotte: durante il litigio infatti, la madre le confessa che una delle ragioni della sua distanza emotiva è sempre stata la paura che provava per lei.
Non intende dire che aveva paura per Eva, ma che aveva paura di Eva.
Questo disvelamento del personaggio di Charlotte è profondamente disturbante. L’immagine di un genitore spaventato di fronte a un bambino molto piccolo è un’immagine a cui siamo abituati: la paura di provocare dolore a un bambino è piuttosto comune. La paura di un bambino non lo è.
Non lo è nel momento in cui consideriamo (per dirla in modo davvero semplicistico) il bambino come un prolungamento fisico ed emotivo della vita del suo genitore: fin dall’accudimento nel ventre materno, il figlio è caricato delle aspettative e dei desideri del suo genitore. Disconoscere un figlio ancora nemmeno adolescente, quindi, ci appare come un profondo disconoscimento di sé, che risulta straniante: rivela un dolore esistenziale autentico, e per questo inconsolabile.
Di fronte a questa nuova consapevolezza, lo spettatore si affaccia a un secondo livello di incomunicabilità presente in Sinfonia d’Autunno che complica incredibilmente il quadro dei rapporti e dei ruoli dei due personaggi: se inizialmente si attribuiva l’incapacità comunicativa madre-figlia all’egoismo di Charlotte, adesso anche la madre si disvela come profondamente incompresa dalla figlia.
Di fronte a queste esternazioni e al crollo dell’immagine psicologica chiara (e un po’ semplicistica) che avevamo di Charlotte, sia Eva che lo spettatore sono destabilizzati, perché insieme a una visione più complessa della figura della madre, emergono molte domande: possiamo ancora condannare Charlotte in toto? Possiamo condannarla anche solo come madre? Come render conto di tutte le sfaccettature di questo personaggio nel pronunciare un giudizio nei suoi confronti?
Per questo il perdono. Il perdono, sembra dirci il regista, è l’unica scelta giusta possibile di fronte ad un complesso orizzonte di incomunicabilità, come quello di Sinfonia d’autunno.
Dopo un impegno psicologico a tratti logorante, Ingmar Bergman ci saluta con una dolce carezza sulla spalla: state tranquilli, ci sta dicendo, io comunque spero nell’amore.
Sinfonia d’autunno è un’esperienza segnante: è un percorso intricato, pieno di dolore, ma senza patetismi. È un vero inno all’amore.
«Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore».
(Fabrizio De André- “Il testamento di Tito“)