Il Cinema, come sappiamo, è fermo da un mese. O forse no?
I progetti per il futuro sono solo rimandati e, ci auguriamo, torneranno più vivi che mai.
Tra le personalità che saranno da tenere d’occhio nei prossimi mesi c’è sicuramente Andrea Castoldi. Regista e sceneggiatore, classe 1976, con già tre film all’attivo: Ti si legge in faccia (2014), Vista Mare (2017) e Non si può morire ballando (2019).
Abbiamo fatto una bella chiacchierata con lui e ve ne presentiamo un resoconto.
Iniziamo col raccontare la tua formazione.
Andrea Castoldi:
Io principalmente mi sono formato con Marco Bellocchio, un maestro in vita.
Ho avuto la possibilità, parallelamente, di partecipare a dei workshop paralleli a questa scuola, per esempio con Vincenzo Cerami (candidato al Premio Oscar alla migliore sceneggiatura per La Vita è Bella).
Parto anche da una carriera attoriale, quindi ho potuto conoscere l’altra faccia della medaglia e analizzare questo mondo da due angolazioni differenti: quella artistica grazie al lavoro da attore, quella tecnica stando dietro la macchina da presa.
Quali sono stati i tuoi primi passi come regista?
Andrea Castoldi:
Ho iniziato, come molti, girando dei cortometraggi che hanno avuto la fortuna di vincere parecchi premi, soprattutto il secondo intitolato Te lo leggo in faccia.
Da quest’ultimo è poi è nato il mio lungometraggio d’esordio Ti si legge in faccia, girato in Sicilia con protagonista Mauro Lamantia (Notti magiche di Paolo Virzì).
Sarebbe molto interessante parlare di questa tua transizione da attore ad autore. Com’è avvenuto il passaggio da un ruolo all’altro? C’è stato qualche evento scatenante?
Andrea Castoldi:
Credo che, principalmente, la risposta risieda nell’aspetto caratteriale. Quando sei un tipo “accentratore” e ti senti in prima linea nelle cose che fai, a un certo punto il lavoro attoriale inizia ad essere in qualche modo restrittivo.
Se si aggiunge anche il fatto che sono sempre stato una discreta penna e ho sempre giocato con le parole, ecco che l’urgenza creativa si è fatta ancora più strada dentro di me.
Pensando al ruolo del regista come a quello di un capitano che manovra la macchina insieme ad altre persone, mi sono reso conto che era arrivato il momento giusto per dare ulteriore spazio a idee che non stavano più bene solo su carta, mancavano di ossigeno e dovevano essere sviluppate ancora.
Che regista hai scoperto di essere con queste esperienze?
Andrea Castoldi:
Ho scoperto di essere un regista che non si basa troppo sulla tecnica, o almeno non così a fondo come altri. Sono più regista di penna. Tendo a dare molto più peso alla struttura narrativa, supportato ovviamente da una squadra consolidata negli anni che riesce ad anticipare e comprendere quelli che potrebbero essere i giusti spunti visivi.
Mi piace di più la gestione degli attori, la preparazione al modo con cui ci si avvicina alle battute, dando loro la possibilità di renderle più vive. Non c’è miglior battuta di quella raccontata a voce.
Guardando ai tuoi film, hai riscontrato (anche a posteriori) qualche tematica prevalente o che in qualche modo tornasse sempre, oppure hai sempre cercato qualcosa di nuovo?
Andrea Castoldi:
Potrà sembrare una banalità quella che dico, ma spesso e volentieri è come se l’idea cercasse me. Non genero niente a tavolino o troppo razionalmente pensando a una precisa tematica o genere.
Mi è capitato di percepire o vivere insieme a un’idea per parecchio tempo per poi accantonarla per mancanza di dettagli o sviluppi precisi, salvo poi ripescarla e completarla anni dopo.
Per raccontare un aneddoto, Ti si legge in faccia è nato durante un viaggio in treno, leggendo un trafiletto di giornale da cui poi è nata la struttura della storia. Il discorso è diverso, per esempio, per gli spot pubblicitari, in cui hai uno spunto di partenza che devi sviluppare in modo nuovo per proporla al cliente. In un’altra occasione, mi è capitato di essere in casa con una scopa in mano e ho avuto un’idea.
Ok, questa la devi proprio raccontare!
Andrea Castoldi:
Assolutamente sì! Si tratta del mio quarto lungometraggio, dal titolo Il Principe di Melchiorre Gioia, che è attualmente in fase di post-produzione.
Possiamo tranquillamente anticipare la domanda sui tuoi progetti futuri, dunque.
Andrea Castoldi:
Certo! Il film è tratto da una storia vera, uno spaccato di vita che conoscevo per via di una persona che in quell’epoca praticava un certo modo di vivere. Eravamo buoni conoscenti, ma non ci siamo sentiti per circa quindici anni. Nonostante ciò, ci siamo immediatamente riavvicinati e sono riuscito a strappargli dieci ore totali di interviste. Il film era praticamente già raccontato, io ho dovuto ovviamente sistemarne i contorni. La storia è ambientato nel 1998 e ruota intorno a Via Melchiorre Gioia, una via che taglia la Milano di periferia dalla città.
In quegli anni era una via della perdizione a buon mercato, quindi parliamo di prostituzione, droga e serate fino all’alba in locali di dubbio gusto. Il protagonista della storia si muove in questo ambiente con una pelliccia esuberante, degli occhiali gialli e, per giunta, con una mole fisica non indifferente, quindi va da sé che una volta diventato un personaggio conosciuto, tutti abbiano iniziato a chiamarlo “il Principe”. Non vorrei dire molto altro, ma potrei dire che è la storia di un perdente con il sorriso, che si prende poco sul serio e si attornia di personaggi quasi fumettistici. Questa storia, pur diversa dalle altre ha toccato le mie corde di poesia, atmosfera e anche di sfera sociale e ho capito che era quella giusta.
Tornando indietro nel tempo, parliamo del tuo ultimo film uscito, Non si può morire ballando. Anche qui parliamo di una storia vissuta molto da vicino.
Andrea Castoldi:
Rispetto a Il Principe… qui la dinamica è leggermente diversa. Non si può morire ballando è un omaggio a una persona a me vicina che, a un certo punto, si è ammalata e, per fortuna, oggi ne è parzialmente uscita. L’ho voluta omaggiare anche tramite alcune scelte narrative precise come, ad esempio, un finale in cui è lo spettatore a scegliere come interpretare la storia.
Durante il tour promozionale mi è capitato di sentirmi dire da alcuni spettatori “secondo me è così…” e io, pensandoci, mi sono sentito di rispondere loro: “avete pagato il biglietto? Allora il film è anche un po’ vostro!”.
Parlaci delle tue influenze. C’è qualche regista in particolare che ha ispirato Andrea Castoldi per com’è oggi?
Andrea Castoldi:
Ebbene, qui ho una notizia da dare, sperando di non apparire presuntuoso. C’è un mio atteggiamento nella vita che, nel mio lavoro da regista, cerco di non avere: se c’è qualcosa che mi piace mi ci avvicino molto, come se mi vestissi di quello che quella persona può darmi dal punto di vista artistico. Nella mia attività, quindi, cerco di centellinare queste possibilità. Per non prendere spunto, non mi butto mai a capofitto su di un autore dopo aver visto un suo film, ma lo diluisco nel tempo.
Detto questo, per me uno dei registi più completi attualmente (anche a livello di budget a disposizione) è senza dubbio Paolo Sorrentino, che possiamo dire aver influenzato molte persone con il suo stile. Ha un modo di narrare che si è evoluto nel tempo e non è mai rimasto fine a sé stesso. Un altro personaggio che mi è sempre piaciuto per il suo essere legato sia alla regia, sia alla recitazione, è Francesco Nuti. Ai tempi girava film magari semplici, senza preziosismi, ma con tanto contenuto, toccando corde poetiche che si stringevano la mano. So che sono due personaggi molto lontani, ma sono i principali che mi vengono in mente. Probabilmente si prenderebbero a pugni artisticamente! (ma non diciamo chi vincerebbe).
Venendo a un’ultima domanda molto attuale: in questo periodo di quarantene forzate, il cinema ci può venire incontro? Come?
Andrea Castoldi:
Questa è una domanda da un milione di euro e potrei anche uscirne fuori male, ma personalmente in quest’epoca (chiamiamola così) a me infastidisce vedere i film. Questo perché raccontano di cose che fino a ieri praticavo anch’io, ovvero abbracci, interazioni, drammi, commedie. È come se fossero più vivi gli attori delle persone e più reali i film della vita stessa.
Il cinema sembra l’ombra della vita che vivevamo. Probabilmente provo una triste invidia nei confronti dei film. Questa simbologia della mascherina che portiamo in questo periodo rappresenta una sorta di sconfitta per l’umanità perché taglia le gambe alla comunicazione, alla voce che si appoggia su un determinato viso per trasmettere un messaggio. Spero solo che questo stato di sconfitta duri meno possibile. D’altro canto, però, sto aspettando anche la curiosità di vedere come sarà un domani quando tutto questo sarà finito, se magari il mondo potrà cambiare in meglio! Cosa può fare il cinema, quindi? Dopo una risposta simile, credo non ci sia molto altro da dire. Ecco, forse partendo dal mio status di invidia, il cinema può essere una riflessione su di essa, sul come mai scateni questo sentimento e le mancanze che sento nella vita guardando una storia raccontata su schermo.
L’intervista effettiva si è chiusa su questi pensieri, ma come scrittore vorrei fare qualche considerazione.
Più che un’intervista classica, è stato un vero flusso di coscienza di un’ora fra due persone che, pur non essendosi mai viste né sentite prima, si sono trovate molto in sintonia.
Abbiamo scherzato e affrontato anche discorsi seri e profondi riguardanti la nostra attuale situazione, i progetti futuri, l’importanza di una visione positiva, ma che tenga debito conto della realtà dei fatti.
Sentendo in qualche modo una piccola parte della vita dell’altro, mi sento veramente di augurare ad Andrea Castoldi una grande carriera e auguro anche a me stesso di avervi incuriosito raccontandovi le sue parole, tanto da farvi decidere di recuperare i suoi lungometraggi in questo periodo di chiusura verso l’esterno e, volenti o nolenti, di apertura nuova verso noi stessi.