La solitudine è una condizione che accompagna l’essere umano durante tutto il suo percorso esistenziale, portandolo a riflettere sul senso del proprio rapporto con gli altri.
Partendo proprio dalla relazione che si crea tra il singolo e il collettivo, questo stato d’animo ha assunto nel mondo degli anime giapponesi delle varianti, assumendo varie forme.
Prenderemo in esame alcuni personaggi di celebri shonen per analizzare e comprendere le diverse caratteristiche della solitudine.
La solitudine dei numero uno
Questa tipologia è rappresentata dallo stereotipo della superiorità individuale e dalla manifestazione di innate capacità che portano il soggetto alla più estrema e radicale emarginazione. Prenderemo come riferimento Coyote Stark, un personaggio dell’anime Bleach.
Coyote Stark è il Primera Espada, il Vasto Lorde più potente di Hueco Mundo e il primo soldato di Aizen. In questa condizione di grande condottiero si presenta, però, completamente immerso in una tragica e solitaria realtà esistenziale.
Stark vive la propria vita lontano dagli altri, a causa della propria forza che lo porta, da sempre, a essere escluso da ogni tipo di gruppo sociale. Per questo motivo invidia i deboli, la loro capacità di migliorare insieme e di creare legami per superare le avversità.
Da questo desiderio nasce allora la volontà di dividere la sua anima in due: Coyote Stark e Lilynette Gingerback.
Probabilmente, come egli stesso afferma, nessuno dei due è l’originale, ma semplicemente un altro essere, e, nella sua lotta impossibile per essere considerato debole, in modo da poter essere accettato, chiede di poter essere finalmente sconfitto.
L’aspetto della morte che rappresenta, la solitudine, non è una scelta casuale, poiché è strettamente legata alla sua condizione esistenziale di numero uno.
Non è una scelta casuale, infatti, l’emblematica manifestazione del rilascio della sua Zanpakuto: “Lo Lobos” (“gruppo di lupi”). Kubo, attraverso Stark, cerca di raccontare quella solitudine che Beckett aveva già descritto nella breve novella Compagnia, terminata non casualmente con la parola “solo”.
L’isolamento emotivo
L’alienazione emotiva è la condizione che investe chi, per un motivo o per un altro, decide di non vivere pienamente il proprio tempo. In questo caso la scelta del personaggio è caduta sulla condotta di vita di Gowther, dell’anime The Seven Deadly Sins.
Gowther è una bambola, membro dei Sette Peccati Capitali ed esponente del peccato della lussuria, come testimonia la capra tatuata sul pettorale destro. È l’alter-ego apatico del suo creatore, il Gowther originale, che gli diede l’aspetto della donna che amava.
Gowther di The Seven Deadly Sins
Il suo annullamento emotivo inizia dopo la morte della sua amata, quando decide di strapparsi il cuore che gli aveva impiantato il vero Gowther. Da quel momento, assumendo atteggiamenti di matrice lynchiana, vive ogni singolo giorno recitando, mostrando finte espressioni facciali e simulando vari cambiamenti di tono.
Gowther interpreta un ruolo che non ha nessun tipo di emozione e ricordo, e la sua incapacità di comprendere le emozioni altrui lo porta a sperimentare con il mondo circostante, senza avvertire il minimo rimorso.
Il suo nichilismo in divenire si concretizza nel momento in cui sceglie di recidere ogni legame con l’umanità, e, paradossalmente, nella volontà di recuperare la sua antica linfa emozionale. La sua è non vita, una continua ricerca di ciò che aveva e di ciò che era, prima di perdersi nella solitudine del suo eterno dolore.
La parabola emotiva di Gowther mostra però una necessità umana apparentemente contraddittoria: il puro egoismo di isolarsi dai propri sentimenti, di dimenticare la propria condizione e di scegliere di non essere.
È, quindi, da biasimare la scelta di Gowther? È giusto annullare le proprie emozioni? A quale prezzo?
To be or not to be
La condizione di un ibrido, di una mezza verità, di un non essere è una tentazione che, da sempre, affascina e tormenta l’animo umano. Rappresenta un topos che ha attraversato ogni tipo di produzione artistica e trova una chiara manifestazione, tra le tante possibilità che offre l’animazione giapponese, nel protagonista della serie Tokyo Ghoul e del suo sequel Tokyo Ghoul: Re.
Ken Kaneki è un umano che, senza la possibilità di scegliere, smette improvvisamente di esserlo. La sua transizione esistenziale avviene però prima nell’anima e, poi, nel corpo. Il giovane Kaneki è da sempre un individuo fortemente empatico, che mostra costantemente gentilezza e umiltà. Tuttavia, sotto la sua natura altruistica e dolce si cela la paura di rimanere solo.
Da quando sua madre è morta, Kaneki ha sempre cercato di assomigliarle. Non sopporta la solitudine e di conseguenza protegge le persone a lui più care, così da evitare, egoisticamente, la sua più grande paura. Kaneki cerca sempre di salvaguardare gli altri, ma inconsciamente e indirettamente, sta cercando di evitare di rimanere nuovamente da solo.
La morte della madre rappresenta, quindi, un crocevia fondamentale per comprendere l’atteggiamento del personaggio in tutta la narrazione.
Il punto di non ritorno è rappresentato dalla trasformazione fisica, che avviene dopo il fatidico incontro con il Ghoul Rize. Quando la predatrice lo attacca in un cantiere per divorarlo, Kaneki è ferito gravemente all’addome, ma prima che lei lo finisca, la casualità offre un’ultima via di fuga.
Per salvargli la vita, lo staff del Policlinico Kanou decide di trapiantare d’urgenza gli organi di Rize. Al suo risveglio, non è più umano, è qualcosa di totalmente diverso, e forse, mai visto.
Kaneki di Tokyo Ghoul e Tokyo Ghoul: Re
Il lungo mutamento fisico che affronta il mezzo Ghoul passa dall’accettazione di sé, attraverso il nutrimento per il proprio corpo, e dallo sviluppo delle proprie abilità combattive, per proteggere gli altri. Nel corso della narrazione Ken è tormentato dalla sua costante inadeguatezza, dall’essere, paradossalmente, tutto e niente e dal fatto di non avere più la possibilità di scegliere.
I dubbi amletici sono evidenti nei continui dialoghi con se stesso e nella colorazione dei capelli che, nel sua mente, rappresentano le tentazioni delle sue molteplici e diverse nature.
Come Balto, Kaneki non è un uomo, non è un Ghoul, sa soltanto quello che non è.
L’abnegazione assoluta
Il dovere, il sacrificio, il pragmatismo, la volontà, l’umiliazione, la tragedia. La solitudine che investe la moralità delle proprie azioni è, molto probabilmente, la più affascinante da analizzare e non si può non prendere in esame, uno dei personaggi più iconici del panorama anime, Itachi Uchiha di Naruto.
La sua è una delle storie più blasonate dell’universo creato da Kishimoto, che attraversa gran parte della narrazione, nonostante la scarsa frequenza del personaggio.
Itachi di Naruto
La solitudine di Itachi è, infatti, alimentata da due aspetti: il mistero e il suo unico legame con il passato. Il fatto che Itachi non sia un personaggio sempre presente nel corso degli eventi imprime al suo ruolo un alone leggendario di fascino, che nel corso del tempo lo ha reso quasi un simbolo assoluto dell’opera.
Dopo aver compiuto il massacro del suo clan ed essersi unito all’Associazione Alba (Akatsuki), Itachi si ritrova a vivere una vita completamente isolata dalla verità e dalla giustizia.
In realtà, il concetto stesso di giustizia assume una dimensione quasi surreale, perché per Itachi non esistono limiti o vincoli. Portando avanti il sogno dell’amico Shisui, l’atto di devozione diventa realtà quando decide, tragicamente, di sacrificare tutto ciò che gli è più caro, o per meglio dire, quasi tutto.
L’ultimo legame che tiene ancorato Itachi al suo passato è, infatti, l’unico superstite del clan Uchiha, il fratello minore Sasuke.
La sua parabola arriva chiaramente a intrecciarsi con quella di Itachi, fino ad arrivare a una svolta fondamentale con la conoscenza della verità. Queste le parole del Terzo Hokage Sarutobi:
«Itachi pensava come un Hokage. Non c’era persona nel villaggio che amasse più del fratello minore, Sasuke, di cui ammirava e proteggeva l’ingenuità e la spontaneità. Secondo alla protezione del fratello il suo obiettivo era salvare il villaggio da guerre, ed è questo che lo spingerà a sterminare il suo clan, ad unirsi all’Akatsuki e a diventare un nukenin. Da sempre ragazzo riservato e sensibile, i suoi ideali erano condivisi solo con il suo migliore amico Shisui, e alla sua morte tramandò il suo credo ninja».
La vita di Itachi è quella di un uomo che ha dovuto sempre vivere la verità in solitudine, immergendosi nella più cupa oscurità e abbandonando ogni affetto possibile. Kishimoto, attraverso il suo percorso, costruisce un labirinto che non ammette via d’uscita.
L’edificazione di una falsa verità rappresenta il fulcro esistenziale del personaggio perché lo proietta, senza mezze misure, nella sua battaglia. L’isolamento di Itachi passa, in definitiva, attraverso una visione egoistica del dolore, che antepone, in modo ossessivo, il proprio altruismo al mondo stesso.
Da scelta volontaria a condizione naturale, la solitudine si presenta, quindi, come un realtà emotiva che investe ogni aspetto del personaggio, diventando una certezza assoluta della sua caratterizzazione e del genere stesso.
Satoshi Kon, l’illusionista giapponese che ha trasformato l’animazione nella rappresentazione del suo inconscio, è stato di grande ispirazione per i registi occidentali. Qual è il valore che oggi questo processo di appropriazione culturale di Kon ha?
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