Commedia criminale italiana – Tra I soliti ignoti e Smetto quando voglio
Pietro Zinni: «In Italia una droga per essere definita tale deve essere censita nell’elenco delle molecole illegali del Ministero della Salute. Se una molecola non è in quella tabella allora la puoi produrre, la puoi assumere, ma soprattutto la puoi vendere. A ventiquattro anni mi sono laureato in Neurobiologia con il massimo dei voti, ho un master in Neuroscienze computazionali e uno in Dinamica molecolare. Negli ultimi due anni ho messo su una banda che gestiva un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro, ho fatto un patto segreto con la polizia, sono evaso dal carcere di Rebibbia e ho sventato un attentato con il gas nervino alla Sapienza. Mi chiamo Pietro Zinni, sono un ricercatore universitario…e mi volevo soltanto comprare una lavastoviglie».
Il monologo di Pietro Zinni (Edoardo Leo, il protagonista assoluto della trilogia), pregno di un’ironia amara e malinconica, apre l’analisi sul fenomeno particolare e anomalo di un franchising tutto italiano che, se considerato e messo a confronto con l’offerta di allora e poi di adesso del panorama cinematografico italiano, dimostra ancora oggi di avervi molto poco in comune, rivelandosi invece una serie di prodotti fortemente outsider.
Isolando per esempio questo monologo conclusivo – poiché di fatto con le parole di Zinni cala il sipario sul terzo capitolo (e forse ultimo) della trilogia italiana oggetto di questa analisi, Smetto quando voglio, si ha uno sviluppo e una presa di coscienza da parte del pubblico tanto immediata quanto potente sulla spinta umana e narrativa dei tre film.
Una presa di coscienza che coincide con il cambiamento e la trasformazione radicale che piomba come un macigno sui corpi, le psicologie e dunque anche sulle vite dei personaggi che la trilogia segue e racconta.
Il primo capitolo, risalente all’ormai lontano 2014, apriva infatti con un monologo di Zinni molto simile a quello che si sentirà nell’epilogo del terzo capitolo. Manca però di una conclusione netta, come la motivazione delle gesta, e si ferma allo svelamento e alle modalità di chi ha compiuto (e compirà) le azioni criminali fortemente nerd, fracassone e umoristiche sparpagliate (seppur in modo differente) nel corso dei tre film.
Inizialmente, il primo film sembrava partire da un’idea di black comedy leggera e divertente, sulla risposta goffa e per certi versi immatura di un gruppo di amici (e poi estranei) al licenziamento improvviso dalla sfera accademica romana.
Soltanto proseguendo con i due capitoli successivi invece si fa via via più chiara ed evidente la vena drammatica e amara di una narrazione che vuole divertire, ma anche mostrare la rabbia, la fame e la disperazione che possono allontanare totalmente un individuo dalle proprie attitudini originarie, rendendolo altro.
Da qui deriva poi una violenza cartoonesca e improvvisata, priva di preparazioni morali e pratiche, e forse per questo ancora più spaventosa e brutale, per quanto mai mostrata realmente nella sua componente sanguinosa e drammatica. Vira anzi verso il registro comico della slapstick comedy, o meglio ancora, del cinema demenziale.
I registri interpretativi e narrativi dello slapstick e del demenziale sono parte fondamentale della trilogia, a partire dalla costruzione psicologica, dalle parlate, dai movimenti degli interpreti dei personaggi centrali (Zinni, Napoli, Argeri, Petrelli, Bonelli, Sironi, De Sanctis e Frantini), fino alla messa in scena dell’azione e degli incontri tra personaggio principale (buono, ma si fa per dire) e antagonisti.
Un caso di necessaria citazione può essere identificabile in un dialogo notturno fortemente umoristico, da vero cinema demenziale, contenuto all’interno del primo capitolo di Smetto quando voglio:
Giulia: «Pietro?».
Pietro: «Sì?».
Giulia: «Ma sei ancora sveglio? Ma che stai facendo?».
Pietro: «Mhmm, navigavo… sì. Un po’ così… diciamo… random».
Giulia: «Dopo almeno cancella la cronologia, eh. Ma che c’hai in faccia?».
Pietro: «Eh?».
Giulia: «Eh… in faccia».
Pietro: «Ah no, niente, un cazzo».
Giulia: «E perché hai un cazzo disegnato sulla faccia?».
Pietro: «Perché? Eh… mi sembrava una cosa divertente, no?».
Prendendo in considerazione questo dialogo, così come molti altri elementi comici ricorrenti, si ha immediatamente un’idea della vena comica della trilogia di Sidney Sibilia, molto più strabordante e tracciata rispetto a quella drammatica.
Alcuni esempi possono essere la escort moldava sempre pronta alle fellatio; il rapporto tra il professore Zinni e l’alunno Maurizio (Guglielmo Poggi) che non paga le ripetizioni; il latinismo esasperato del duo Aprea-Lavia, di un’ironia amarissima nonché parodica sugli intellettualismi idioti e infantili; le manie sensazionalistiche ed egoistiche di Alberto Petrelli (Stefano Fresi) e infine tutto ciò che è gestualità e comportamento di Andrea De Sanctis (Pietro Sermonti), personaggio fortemente emblematico nel suo pentimento rispetto alla laurea conseguita a pieni voti.
Nonostante questo però Sidney Sibilia (così come i suoi sceneggiatori: Valerio Attanasio, Andrea Garello, Francesca Manieri e Luigi Di Capua) dimostra di voler portare la sua trilogia anche all’interno di una dimensione più specifica e riconosciuta, quella della denuncia sociale.
Dapprima affondando i denti sul dramma del precariato e la disoccupazione, per poi spostarsi sulla tragedia del lutto e la sua complessa e triste elaborazione, senza risparmiarsi sui sentimenti duri e gelidi (incarnati e vissuti da Walter Mercurio nel terzo capitolo), laddove avrebbe potuto benissimo tornare sul conciliatorio e la risata.
Un cinema moderno di commedia ibrida, sempre a cavallo tra black comedy e demential comedy, con più di un’avanzata verso il dramma e quindi verso un cinema più giustamente adulto e cupo.
La trilogia di Sibilia vive poi di una lunga e incredibile serie di riferimenti cinematografici, musicali, letterari e fumettistici, a partire da una strizzata d’occhio (voluta o meno) al capolavoro fumettistico di Alan Moore: Watchmen.
Ripresa tra le mani oggi questa trilogia risulta tanto distante dal cinema italiano moderno, quanto I soliti ignoti lo fu per il cinema italiano d’allora.
Vero e proprio capolavoro cinematografico di un grande regista come soltanto Mario Monicelli seppe essere, I soliti ignoti, film dell’ormai lontano 1958, rappresenta in qualche modo un caso particolare e importantissimo di novità.
Poiché appena dopo la sua uscita si inizia a parlare di commedia all’italiana.
Un vero e proprio genere che deve la sua nascita a questo film sicuramente anomalo e fuori dal comune, se preso in esame e poi confrontato con l’intera filmografia di Monicelli.
Primo film dalla aderenza totale e definitiva a quel genere/modello, non tanto per ragioni politiche o sociali, quanto perché le pellicole antecedenti, pur potendo considerarsi commedie all’italiana, mancavano di molti dei caratteri tipici, quindi più facilmente attribuibili al sottogenere del neorealismo rosa, di fatto un anticipatore della commedia all’italiana vera e propria.
Con I soliti ignoti di Monicelli l’Italia in qualche modo prende coscienza di poter tranquillamente ridere di se stessa, dei suoi problemi, difetti, particolarità e difficoltà.
Un cinema di individui macchiettistici e fortemente ricalcati sulle debolezze, idiosincrasie, goffaggini e abitudini tipiche dell’Italia di quel preciso contesto storico, sociale, politico e culturale.
Così come la trilogia di Sibilia (con le dovute differenze chiaramente), I soliti ignoti di Monicelli racconta la storia di un gruppo di poveracci alle prese con una rapina che, nelle loro intenzioni, li farà diventare ricchi.
La Roma di queste due narrazioni, oltre a essere molto distante per tematiche e caos, lo è anche nella sua geometria, scenografia e appartenenza sociale.
Da una prima (quella della trilogia di Sibilia) più giustamente attuale, dunque tecnologica, caotica, cool e fumettistica – in cui chi gode di una posizione di successo è immediatamente identificabile, così come chi all’opposto non ne gode – a una invece (quella del film di Monicelli) più malinconica, arretrata, espressionista, sporca e teatrale, nella quale il divario sociale non viene sottolineato e reso evidente. Anzi, questo viene sfruttato per avvicinare la borghesia a quel sottoproletariato urbano che via via produce e sviluppa menti criminali improvvisate e goffe come quelle impersonate da Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Totò, Carlo Pisacane e Tiberio Murgia.
Quei personaggi fortemente macchiettistici sono molto simili a quelli della trilogia di Sibilia, poiché nascondono (nemmeno troppo sotterraneamente), tra le loro ambiguità, infantilismi e idiozie, un messaggio politico profondo e sincero che l’intero popolo in qualche modo gli ha consegnato al principio e di cui dovranno farsi carico.
Così com’è incredibilmente simile la progettazione totalmente affidata al caos, all’imprevisto – quindi giustamente comica nel suo essere apparentemente impraticabile – del piano “criminale” per diventare ricchi e rifarsi su quella classe sociale che ha causato la caduta rovinosa e drammatica di questi personaggi.
Caduta che osserviamo e conosciamo nella trilogia di Sibilia e che invece immaginiamo soltanto nel film di Monicelli. Laddove però i due stili prendono distanze evidenti e conclusive è proprio nel modo in cui quel messaggio politico-sociale viene veicolato.
Da una parte prende avvio dalla commedia per poi terminare nella commedia amara, se non propriamente nel dramma, nel caso di Smetto Quando Voglio. Dall’altra prende avvio dalla commedia farsesca per poi ritornarvici ne I soliti ignoti.
Riflettendo dunque sulla criminalità raccontata e mostrata nella trilogia di Sibilia e nel film di Monicelli, si osserva una sostanziale distanza che fa la differenza e che rende evidente come da una parte si voglia essere ridicolmente conciliatori e concludere nella risata (I soliti ignoti), mentre dall’altra si tenda invece a essere amari e tristemente realistici, terminando nella rassegnazione (Smetto quando voglio).
Emblematica la presa di coscienza di Zinni di aver agito nella criminalità e di aver aggirato le regole per il solo acquisto di una semplice lavastoviglie. Una rassegnazione dolente, stanca e pregna di un realismo tristemente tragico.
La trilogia di Smetto quando voglio e I soliti ignoti di Monicelli si incontrano sul farsesco e sul lato comico dell’improvvisazione criminale, per poi allontanarsi totalmente nella messa in scena, così come nella necessaria conclusione e consegna al pubblico del messaggio politico e sociale che entrambe le narrazioni possiedono.