È possibile essere derubati di qualcosa che non è mai stato nostro? Si può chiedere il conto di ansie non richieste, di felicità impossibili, di tempi fuor di sesto? A chi presentarlo poi, questo conto? Nascere e crescere in periferia, tra le vedette della piazza di spaccio e le ronde delle guardie, vuol dire fare a meno dell’innocenza, dell’infanzia. Vuol dire venir fuori già coi calli e le rughe, rinunciare a pensare ai giochi e ai sogni, troppo presi dalla realtà dura e pura. Nessuno spazio per i selfie e la società dello spettacolo; nel rione si mangia porfido e si caca oro, come giovani alchimisti alla ricerca della pietra filosofale.
Questa è la vita di Alessandro e Pietro, due amici del Rione Traiano; sedici anni per l’anagrafe, anche se loro se ne sentono molti di più sulle spalle e nelle ossa. A dispetto della loro giovane età, entrambi hanno la testa già focalizzata su obiettivi di vita concreti, con orizzonti profondamente limitati. Parlano di lavoro, di responsabilità, di stipendi; mentre di lì a due chilometri, nel quartiere ben più borghese di Fuorigrotta, i loro coetanei si beano sui motorini fuori dal McDonald’s. Nella periferia non c’è lo spazio né fisico né mentale per farlo; il quartiere è fatto di strade e palazzoni, asfalto e cemento, nessuno spazio per il cielo.
Lo spaccato di vita che restituisce Selfie (2019), il film di Agostino Ferrente, sta tutto qui; in questa monotonia e normalità che spiazza tutti quelli che si aspettano che in ogni ragazzo di periferia si nasconda un gomorride a buon mercato.
E invece non è così; anche se ci si ricorda della marginalità solo quando mette in discussione troppi equilibri del potere, quando fa la voce grossa e pretende agibilità, invece di limitarsi a torchiare i veri emarginati, lontani dai centri e dagli occhi dei potenti e, quindi, lontani dal cuore. Esistono questi ragazzi, che non vogliono rinunciare ai propri sogni, cadendo nella rete della criminalità; ma che quel sogno lo vedranno sfumare ugualmente, anno dopo anno, mesata dopo mesata, turno dopo turno.
Lo dice da subito Pietro, «parla della morte»; sta allo spettatore poi, dire se si riferisca alla canzone o al film, a Selfie. Impossibile, però, non notare la morte sociale nella condizione di questi ragazzi, sprovvisti di infanzia, di gioventù, di futuro; trattati alla stregua di adulti, perché piegati e piagati dalla necessità. Alessandro si alza presto la mattina, per iniziare il turno dietro al bancone del bar e fare da ragazzo delle consegne; Pietro, invece, stenta a trovare un lavoro, perché vorrebbe fare il barbiere, ma nessuno lo prende nella propria bottega.
La realtà restituisce un quadro grottesco; i due amici sembrano dei nani, adulti imprigionati nel corpo di due sedicenni.
La morte dell’innocenza, immaginaria, ma anche reale. La presenza di Davide Bifolco, amico di entrambi i protagonisti, morto in circostanze ancora tutte da chiarire, aleggia negli occhi di tutti; nelle lacrime pesanti che non possono smettere di bagnare i volti di una generazione intera. Come se non bastasse, subito dopo gli eventi che hanno portato alla morte di un ragazzo di sedici anni, per un semplice scambio di persona, è partito il solito tam tam da tavernetta di condanne a buon mercato. Si sprecano le parole di odio, figlie di uno stupido pregiudizio, quello secondo cui chi nasce in una periferia e sceglie di restarci, deve per forza di cose essere un criminale.
Davide, Ugo, Alessandro, Pietro, quante vite devono essere annullate? Quanti sacrifici prima di rendersi conto che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in quartieri tramutati in alveari, nel trasformare dei ragazzi in bestie? Nietzsche ci avvertiva del pericolo di guardare troppo a fondo nell’abisso, dalla prospettiva di chi alla luce, sotto un sole cocente, può permettersi il lusso di ignorare gli anfratti oscuri. Ma per chi invece nell’abisso ci è nato e cresciuto, che strada gli si apre davanti per uscirne davvero? Non basta girarsi dall’altra parte, far finta che tutto ciò non esista. Che i sobborghi siano solo pieni di cottage a colori pastello e prati inglesi, di cheerleader e futuri avvocati, come in ogni distopica commedia americana.
Non bastano i finti aperitivi nel traffico estivo, per scappare dalla giungla di cemento, meta di sporadici safari metropolitani.
La scelta vincente di Agostino Ferrente, con Selfie, è stata proprio questa: rinunciare a girare un film, non assumere una prospettiva; non legare le esperienze in un immaginario ben definito, in una visione tutta a senso unico e preconfezionata della realtà. Troppo spesso, nel mondo del cinema, abbiamo assistito a narrazioni piatte e stantie, senza grandi distinzioni tra finzione pura e intento documentaristico; si passa tra estremi diversi, che non riescono a cogliere troppe sfaccettature, lasciando dietro di sé il punto di vista di chi quelle strade le vive.
Da un lato, c’è l’anonima e scontata esaltazione della violenza, alla Gomorra. Senza voler scomodare i classici, sarà pur vero che è da stupidi credere che chiunque viva in determinati quartieri nasca con il marchio del camorrista; ma al tempo stesso non si può negare il pericolo di quello che il sociologo Valerio Marchi ha definito effetto feedback. Quel fenomeno secondo cui i ragazzi in periferia salgono agli onori della ribalta solo per fatti di violenza, altrimenti vige il silenzio e l’anonimato per tutti.
I telegiornali si sono occupati di Davide Bifolco e dei suoi amici solo per bollarli come camorristi, certamente non per raccontare la profonda solitudine della periferia; per esistere, nella società dello spettacolo, devi rubare o ammazzare, altrimenti non sei niente. «Hasta quedarnos dormidos… cambiar el destino se puede» recita una scritta sul muro.
Dall’altro lato, c’è l’approccio profondamente etologico di un modo stucchevole di fare cinema, pieno di buoni sentimenti e di moralismo a buon mercato; frutto della convinzione ecumenica di una certa borghesia illuminata, di aver capito qual è il modo giusto per vivere. Basta solo andare nelle foreste, tra i selvaggi, a portare la lieta novella, quella Bibbia infarcita di scuola e lavoro come uniche soluzioni al degrado e alla marginalità. Ma quale scuola, quale lavoro, quali aspirazioni? Laurearsi per lavorare come cassiere in un fast food? Barattare marginalità con alienazione vorrebbe dire passare dalla padella nella brace; nessuna sorpresa, quindi, che la proposta indecente sia rimandata al mittente.
Che ci piaccia o no, nella banlieue, nelle favelas, nei rioni, non ci abitano selvaggi e barbari; ci abitano uomini e donne, esseri pensanti che nel loro piccolo hanno ugualmente qualcosa da dire. Affidando il cellulare nelle mani di Alessandro e Pietro, il regista rinuncia alla parola; il selfie, lo “sguardo in macchina” dei protagonisti rompe la quarta parete, permettendo alla realtà di tracimare nella finzione.
Questa è la carta vincente di Selfie, questa la presa di posizione di Agostino Ferrente: fare un passo indietro rispetto al suo ruolo di direttore d’orchestra, per dare spazio alle voci degli altri. Le voci di dentro, per dirla con De Filippo, che sussurrano e raccontano storie semplici, ma straordinarie nella loro semplicità.
La mano del regista non è del tutto assente in Selfie, ma lavora nell’ombra; non potendo stare fisicamente dietro la macchina da presa, Ferrente si “accontenta” di concentrare la sua attenzione nel montaggio. Ne costituiscono un esempio lampante gli spezzoni di telecamere a circuito chiuso, come intervalli nella narrazione; una sorta di occhio dall’alto che osserva e riporta scene di vita quotidiana, fissate nella loro banale normalità. Chi si aspetta scene tarantiniane da b-movies resterà deluso; le riprese inquadrano solo persone impegnate a fare la spesa, a prendersi un caffè al bar, a giocare al biliardo.
A fare da contraltare, le rapide e confuse riprese fatte durante la morte di Davide Bifolco, mentre un carabiniere entra nella sala giochi con la pistola spianata. La frenesia dei movimenti, la paura palpabile nelle immagini creano un corto circuito mentale; perché l’unico momento in cui appare sullo schermo un rappresentante delle istituzioni, non trasmette sicurezza, ma solo un brivido lungo la schiena. Quello stesso brivido che chi ha calcato quelle strade sente correre di fronte a una paletta, un lampeggiante, il cane armato di una pistola.
Pietro: «[…] è meglio ca nun ce pienze a chello ca nun tiene».
La mano invisibile, in Selfie, viene fuori solo in un’altra occasione: i provini. I volti, gli occhi, i sorrisi, ma soprattutto le parole di quei ragazzi, sembrano mostrare un mondo alla Peanuts. Frasi così mature, discorsi così seri, problemi così grandi, presi da bocche sdentate ancora; purpuree, al sapore di latte, chiedono sigarette e snocciolano valutazioni sul futuro, sulle relazioni, sul destino. Due ragazzine parlano di amore e carcere, del sentimento che supera le sbarre e resiste al tempo che passa; di primo acchito, viene naturale bollarle come superficiali o sprovvedute.
Ma è solo un attimo, giusto il tempo di realizzare che quegli occhi e quelle labbra hanno già raccolto frutti fin troppo maturi. Nella sua breve vita, Sara ha già sperimentato le attese, le file all’alba fuori dal carcere, i pacchetti raffazzonati con dentro pochi dolciumi, le sentenze a poco prezzo dei passanti distratti; il viatico necessario e imprescindibile prima di ogni colloquio, prima di toccare un vetro gelido che sa di affetti lontani e malinconia.
Vivere in periferia vuol dire sentirsi come iceberg, persi nelle siderali immensità degli oceani. Da fuori si vedono solo la faccia, i gesti, le espressioni; ma sotto la superficie del mare, nascosto agli occhi superficiali della folla c’è un mondo sterminato che aspetta solo di venire a galla, o di sciogliersi nell’acqua. Isole sì, ma di ghiaccio bianco e sterile, senza nessun legame alla superficie terrestre; corpi galleggianti che vagano e si scontrano sulle onde di una marea di solitudini. Alessandro, Pietro, Davide, sono solo bimbi sperduti condannati a crescere presto, perché hanno smarrito i loro pensieri felici e non c’è isola felice che potrà accoglierli.