Nessun rito di passaggio, nessun margine d’evoluzione, nessuna speranza a far da culla a nessun sogno. I bambini con la pistola che il cinema italiano contemporaneo ha raccontato e indagato non scelgono tale strada al termine di un percorso che li ha accompagnati, al culmine di un susseguirsi di scelte che li hanno catapultati in simili scenari: o vi nascono originariamente, riconoscendo in tale deriva l’ordinarietà delle loro esistenze, o vi si ritrovano, contingentemente, per via di eventi e casualità in mezzo a cui non sapevano di capitare.
La terra dell’abbastanza (2018), opera prima degli ormai rinomati fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, racconta la storia dei giovani Mirko e Manolo, due fratelli non di sangue che inaspettatamente si ritrovano a navigare nella degenerazione della malavita romana contemporanea, caoticamente protagonista, nell’ultimo decennio, di storie di cruda realtà e tragica deriva. Oceano nel quale i due adolescenti, interpretati dai brillanti Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano, annasperanno e inesorabilmente affogheranno.
In un palcoscenico predisposto alla sconfitta, come più volte sottolineato dai fratelli D’Innocenzo, i due amici investono accidentalmente un uomo, uccidendolo, e passando in pochi attimi dalla serenità delle loro modeste vite a un vortice di panico e senso di colpa. La cinepresa dei fratelli registi esplora la soggettività dei due adolescenti sbattendoci davanti i loro stati d’animo, le loro angosce, l’effetto del loro errore sui loro occhi innocenti.
Caso vuole che l’uomo ucciso fosse anche un bersaglio della famiglia malavitosa dei Pantano; sospinti così dalla squallida e avida figura del padre di Manolo, entreranno nel giro della malavita romana che porterà a entrambi denaro e protezione. I due ragazzi si ritrovano così in una spirale proiettata verso la via di un’inevitabile perdizione.
In particolare Mirko, sul quale l’occhio dei registi si posa con maggior insistenza, vede la sua vita capovolgersi improvvisamente: da un’esistenza modesta, ma serena, con un buon rapporto con la madre e il legame con la coetanea Alba, viene travolto in un vortice di soldi e sangue che distorce la sua giovane visione, alimentando inesorabili frustrazioni e angosce. Il ragazzo entrerà così in una crisi che lo renderà incapace di rapportarsi con gli affetti, mentre l’insito e irremovibile senso di colpa continuerà a roderlo dall’interno.
I due amici compiono per mano dei Pantano le azioni più deplorevoli, incapaci di rendersene conto. Ed è proprio quest’inconsapevolezza che, inizialmente, gli permette di muoversi alle soglie di un abisso immenso e oscuro, grande e imponente quanto il loro ormai segnato futuro. Si motivano a vicenda, si convincono che sia questa la loro strada, consolandosi con l’abbondanza di beni materiali che soppianta, di fatto, l’abbastanza della loro vita prima dell’incidente, semplice, ma genuina, modesta, ma candida.
I due ragazzi vengono incaricati di intrufolarsi a casa di un ex pugile per ucciderlo a sangue freddo; una volta entrati, un’inquadratura dall’alto ci mostra l’esterno dell’abitazione, senza condurci al suo interno. Sparo, pugile morto steso a terra, focus su un Manolo sorridente con la pistola in mano; passa un secondo, il ragazzo si punta la pistola alla testa e fa partire un colpo, morendo sotto gli occhi di un incredulo Mirko. Quest’ultimo sfoga fiumi di lacrime in una corsa in macchina dal travolgente impatto emotivo, prima di venir ucciso un secondo prima di entrare in commissariato, il mattino seguente.
La terra dell’abbastanza rappresenta uno dei turning point della storia cinematografica italiana del decennio appena trascorso.
I fratelli D’Innocenzo scavano la storia del nostro cinema sfoderando uno stile tecnico che si ricollega ai padri della nostra settima arte. Dall’indugio su volti e campi fondi che ci rimanda al primo cinema di Antonioni, alla rosselliniana fulmineità dello sguardo che accompagna la morte di Manolo, o alla profondità di campo che ci immerge nello squallore dei paesaggi, tratto che trova parentele dal cinema di Visconti a quello di Sorrentino.
Una pellicola che rompe con canoni e cliché, che al racconto romanzato di un’improbabile ascesa al crimine preferisce mostrarci il peso che eventi del genere possono esercitare sull’equilibrio di due ragazzi così giovani. Condotti al crollo come nella più nuda delle realtà.
Talento, spregiudicatezza e coraggio: con gli anni, l’opera prima dei fratelli D’Innocenzo si è resa pietra fondante di un nuovo indirizzo del cinema italiano, che continua a crescere, ad arricchirsi, portando a risultati spesso sorprendenti. E che si conferma anno dopo anno.