Gabriele Muccino – Il secondo periodo italiano e il ritorno al suo cinema

Eugenio Grenna

Marzo 9, 2021

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Appena dopo la rottura con il sistema industriale hollywoodiano, avvenuta nel 2016 con l’uscita e la scarsa accoglienza di Padri e figlie, Gabriele Muccino riflette sul ritorno. Non è una riflessione centrata solamente sulla vita privata e quindi familiare del regista romano: è piuttosto una riflessione centrata sulla sua idea di cinema.

Concepire dunque il cinema come lontano da una realtà specifica e molto ben delineata.

Analisi del secondo periodo italiano del regista e sceneggiatore romano Gabriele Muccino. Dal 2016 al 2020. Tre lungometraggi nella storia.

Gabriele Muccino e Pierfrancesco Favino sul set de “A casa tutti bene”

Così come sulla sua voglia di tornare a lavorare nel suo paese d’origine, con una modalità più libera e senza freni o rigidi paletti, come invece il sistema industriale hollywoodiano prevedeva.

Passa soltanto un anno e viene presentato alla 73° Mostra internazionale del cinema di Venezia un nuovo piccolo film di Muccino. Questa volta incredibilmente sincero e sentito rispetto a quanto visto nel periodo appena precedente. Quello del cinema più prettamente di cassetta e dunque commerciale.

Un film che è in qualche modo un nuovo esordio, che rientra in tutto e per tutto nelle logiche e nei canoni del cinema indipendente: L’estate addosso (2016).

L’estate addosso – Un road movie apolide e nostalgico

Analisi del secondo periodo italiano del regista e sceneggiatore romano Gabriele Muccino. Dal 2016 al 2020. Tre lungometraggi nella storia.

L’estate addosso. Paul (Joseph Haro), Marco (Brando Pacitto), Maria (Matilda Lutz) e Matt (Taylor Frey).

Gabriele Muccino torna a distanza di anni su quell’idea così forte e sentita del suo primo grande film di successo, L’ultimo bacio, ossia sulla necessità del racconto, o meglio, della fotografia di un tempo perduto che non tornerà più.

In questo caso si tratta delle estati della giovinezza, quelle più libere e spensierate, ancora distanti dalle preoccupazioni date dal lavoro, dal nucleo familiare e dalla vita intesa nel suo significato più generale.

Il film è concepito come un nostalgico, malinconico, ma anche sentimentale ricordo di un’estate che è stata e che non sarà più, non soltanto per il solo protagonista, Marco (Brando Pacitto), ma anche e soprattutto per una pluralità di individui cui Marco si ritrova sorprendentemente e indissolubilmente legato nel tempo.

Analisi del secondo periodo italiano del regista e sceneggiatore romano Gabriele Muccino. Dal 2016 al 2020. Tre lungometraggi nella storia.

La scoperta di un’amicizia inaspettata. La scoperta di un amore lacerante e viscerale.

Un’estate che sopravvive nel ricordo collettivo di un’amicizia molto potente e di un amore altrettanto forte e inatteso, che però non si è espresso, restando come sospeso tra i sorrisi e i momenti di quel viaggio ormai così lontano, ma ancora incredibilmente vicino. Quantomeno nelle emozioni e come, già detto, nel ricordo.

Muccino racconta sé stesso, prima come regista e poi come uomo, a cavallo tra due realtà molto diverse tra loro, l’Italia e gli Stati Uniti.

La prima limitante e bigotta, chiusa nelle sue certezze, profondamente conflittuale; il personaggio di Maria (Matilda Lutz) almeno nella prima fase incarna perfettamente questa concezione; e poi ombelicale.

Una realtà accondiscendente, sì, ma nonostante tutto immobile dinanzi ai suoi principi e schemi sociali. La seconda invece più apparentemente tollerante, libera e colma di possibilità.

Analisi del secondo periodo italiano del regista e sceneggiatore romano Gabriele Muccino. Dal 2016 al 2020. Tre lungometraggi nella storia.

Gabriele Muccino e il cast sul set de “L’estate addosso”

Gli Stati Uniti che Muccino porta al centro del suo film sono sì meravigliosi e di grandissimo richiamo (basti pensare all’inquadratura di Marco in compagnia del cane, su quella strada di San Francisco che abbiamo visto anni prima nel finale de La ricerca della felicità), ma si svelano lentamente anche per tutto ciò che di sbagliato hanno ancora oggi, e dunque tutto ciò che non funziona.

Interessante sotto questo punto di vista il flashback sull’incontro tra Paul (Joseph Haro) e Matt (Taylor Frey) e dunque l’elaborazione di un amore omosessuale complesso in un’America omofoba e molto poco tollerante.

Ecco quindi che Muccino smonta pezzo per pezzo le certezze dell’America come luogo scintillante cui aspirare per una vita di successi e soddisfazioni, consegnando quasi allo spettatore il messaggio: restiamo nel nostro paese, restiamo insieme, abbiamo così tanto da donare e insegnare loro.

L’estate addosso è infatti il film traghetto, il road movie apolide che si muove tra più paesi (un segmento è ambientato a Cuba), trovando come destinazione finale il ritorno a casa, il ritorno ai propri luoghi.

Analisi del secondo periodo italiano del regista e sceneggiatore romano Gabriele Muccino. Dal 2016 al 2020. Tre lungometraggi nella storia.

L’estate addosso – Il segmento cubano

Muccino desidera tornare in Italia ed esprimere questo suo desiderio forte e urlato quasi, ponendosi nei suoi due personaggi italiani.

Si ritrova nel desiderio di Marco di conoscere un paese molto distante dal suo, di divertirsi senza porsi alcun freno, così come di innamorarsi confessandosi nella solita maniera dei personaggi mucciniani, ossia nell’agitazione e nella tensione del momento.

Così come si ritrova (e colloca) anche nei timori e nei paletti di Maria, che sembra non volersi “vendere” a un modello di vita che non le appartiene. Quello di Maria è per certi versi un rifiuto, tanto per il paese in cui si trova, quanto per sé stessa: si presenta infatti il cammino di cambiamento e trasformazione radicale che trova la sua perfetta conclusione in quello sguardo (di una potenza narrativa incredibile) tra Marco e Maria all’aeroporto di Roma, in seguito al quale non si vedranno mai più.

Il salto verso ciò che è nuovo. La scoperta di ciò che è nascosto.

Il film riflette sulla nostalgia, sul ricordo di quelle estati ormai così lontane per il regista, ma ancora vicine a gran parte dei suoi spettatori.

Una nostalgia veicolata attraverso tre elementi portanti del film: i monologhi in voice over di Marco, la sorprendente colonna sonora di Jovanotti (il suo brano L’estate addosso è in tutto e per tutto il concept movie) e la struttura narrativa: noi sappiamo che tutto ciò che vediamo è già successo, e così com’è successo, è anche giunto a termine, senza ripetersi più.

Chiaramente, tra la nostalgia dell’estate e della giovinezza perduta c’è anche la malinconia dell’amore non corrisposto, quello di Marco nei confronti di Maria, che lo porta a sognarla intensamente, masturbandosi al pensiero di riuscire a farci l’amore.

Muccino, dopo molti anni di distanza da Come te nessuno mai, riporta in sala un’idea di cinema piccolo, low budget, fieramente indipendente e spiccatamente teen, realizzando probabilmente una delle migliori opere della sua carriera registica.

A casa tutti bene – Dramma corale e critica alla famiglia borghese

Gabriele Muccino e il cast del film sul set di “A casa tutti bene”

Se L’estate addosso poteva considerarsi il primo film del ritorno di Gabriele Muccino al cinema italiano, A casa tutti bene (2018) ne è un’ulteriore conferma.

Un film che deve molto al cinema italiano di autori passati e rimasti tutt’oggi nella memoria degli storici, dei registi, dei critici e degli appassionati.

Riferimenti cinematografici perlopiù, che Muccino richiama, a partire dalla sceneggiatura colma di strizzate d’occhio a nomi piuttosto celebri (alcuni più per la regia, altri per la sceneggiatura), quali Scola, Monicelli, Nanni Loy e via dicendo.

Ciò che si prefigge di raccontare, questa volta, è l’enorme vaso di Pandora della famiglia borghese inappuntabile, meravigliosa e illuminata dalla fama, dai soldi e dalle false certezze, riuscendoci pressoché alla perfezione.

Gabriele Muccino, Massimo Ghini e Claudia Gerini sul set. Amore e malattia. Rassegnazione e insoddisfazione.

Per la prima volta dopo molto tempo Muccino torna a interessarsi alla critica di un mondo di cui lui stesso è stato (e forse lo è tutt’ora) parte, così come torna a interessarsi alla modalità di racconto filmico. Non c’è più alcun distacco, tipico della gran parte del suo periodo americano.

C’è piuttosto una volontà di avvicinarsi alla materia, e quindi il ritorno alla vera tecnica, quella del piano sequenza soprattutto, di cui fin dai tempi de L’ultimo bacio si è servito, dimostrando grande astuzia e capacità.

A casa tutti bene è sotto questo punto di vista inattaccabile. Mai prima di questo momento si era visto nel cinema italiano (e non) un dramma, o più nello specifico un film corale così affollato eppure così preciso e attento al racconto e allo spazio per ciascun individuo presente sulla scena.

Questo risultato viene raggiunto soprattutto grazie alla tecnica di un regista che non vuole distacco rispetto ai personaggi che crea e poi distrugge, ma piuttosto una vicinanza intima (Muccino si colloca da sempre nei personaggi del suo cinema), un legame molto stretto e profondo, capace di studiarne ipocrisie, punti di forza e debolezza, ascese, crolli e via dicendo, senza comunicare distacco.

Carlo (Pierfrancesco Favino) e Elettra (Valeria Solarini). Mogli ed ex moglie. Passato e presente. Amore e convenienza, incontro e scontro.

Muccino è sempre addosso agli attori/personaggi con la sua camera vorticosa e mai immobile, li vuole studiare a fondo per colpire necessariamente in profondità e non in superficie, come invece ha rischiato di fare con molto del suo dramma recente.

La famiglia altoborghese del nuovo film di Gabriele Muccino non è distante da molte altre. Come si dice, in famiglia si tira il fuori il proprio meglio, ma anche il proprio peggio e Muccino vuole dai suoi personaggi esattamente questo.

Raggiunto un cast di prim’ordine (si potrebbe definire stellare), tra attori feticcio del suo cinema e nuovi arrivati, il regista romano si diverte e si appassiona nel far crollare queste personalità così apparentemente splendenti e incorruttibili, facendole diventare mostruose.

Un dramma familiare e corale che racconta di miserabili, bugiardi, possessivi, violenti, insoddisfatti e persi. Nessuno o quasi è raggiunto, o meglio, si è raggiunto all’interno del film. Nonostante le età già di peso di molti personaggi.

Si fa non a caso una riflessione sugli anni, attraverso due battute ironiche e amare tra Carlo (Pierfrancesco Favino) e Diego (Giampaolo Morelli). Il divorzio una volta sola può essere accettabile, ma due volte?

Ecco dunque il tema del fallimento, del non essere riusciti a fare di meglio, del non essere più giovani da poter tornare indietro ancora.

Sull’amore lacerato e sull’accontentarsi, questa è la riflessione principale, tra le tante.

Ognuno conosce i peccati dell’altro, qualcuno ha perdonato, qualcuno ha finto di non vedere, qualcuno ha gridato e pianto. Reazioni differenti che si scontrano nella speranza di trovare riparo, finendo per trovarlo a pezzi, distrutto dal dolore, dalla violenza psicologica (e forse fisica) reciproca e inaspettata.

Analisi del secondo periodo italiano del regista e sceneggiatore romano Gabriele Muccino. Dal 2016 al 2020. Tre lungometraggi nella storia.

Miserabili e borghesi, scontro tra ideologie tra sguardi e silenzi.

Muccino segue, mostra e racconta. Muccino si segue, si mostra e si racconta, come d’altronde ha fatto per tutto il suo cinema, lungo la sua intera filmografia.

Ha fotografato la storia dell’Italia, o meglio, la famiglia nel corso della storia italiana, ponendosi talvolta ai margini, talvolta al centro, scoperchiando il vaso di Pandora evocato nelle prime righe di questo breve commento al film.

Il vaso resta chiuso se la famiglia si riunisce per poi disperdersi dopo poco. Il vaso si apre e poi scoppia se la famiglia si riunisce e viene costretta alla convivenza, che possa avvenire per cause di forza maggiore o altro.

La convivenza produce la conseguenza della verità così complessa da mantenere in silenzio e all’angolo. E così tutto viene gridato e cacciato fuori senza più pietà, senza paura di ciò che accadrà.

Muccino non offre alibi perché non attribuisce colpe. Così come non dà alcun giudizio.

Anzi, volendo analizzare più nel profondo quella che è la lettura delle colpe, diventa presto evidente quanto siano gli uomini prima di chiunque altro a crollare, in quanto esseri bugiardi, ipocriti e disinteressati.

L’amore giovane. «Io nella vita non voglio farne di cazzate». Elisa Visari e Renato Raimondi.

A casa tutti bene, titolo piuttosto ironico come d’altronde lo è quel finale fatto di rivelazione inattesa all’uomo che crolla e piange, seguita da una figlia che passa e saluta il “babbo” con allegria e spensieratezza.

Pochi altri registi hanno saputo cogliere e raccontare la famiglia con uno stile così preciso e chirurgico, e poi totalmente umano, sempre a cavallo tra tenerezza, ironia e amarezza.

È tornato il regista della critica alla famiglia borghese, è tornato il regista della critica alla falsa felicità, ai sorrisi menzogneri, alle unioni di comodo e alle maschere.

Analisi del secondo periodo italiano del regista e sceneggiatore romano Gabriele Muccino. Dal 2016 al 2020. Tre lungometraggi nella storia.

Gabriele Muccino, Stefano Accorsi, Isabella Ragonese e Pierfrancesco Favino sul set del film. Dirigere il pathos e lo scontro nella claustrofobia degli interni.

A casa tutti bene diviene ben presto, nel corso di un gioco al massacro senza esclusione di colpi (messo sempre abilmente a contrasto con il meraviglioso paesaggio di Ischia) “a casa tutti male”… ed è ancora una volta un grande piacere.

Geniale l’uso di Bella senz’anima nel trailer del film. Muccino, d’altronde, è sempre stato capace di trovare in un brano o più in generale in una musica il concept movie della sua opera di destinazione.

Bella senz’anima di Riccardo Cocciante è dunque il brano da ascoltare per comprendere al meglio il messaggio dell’ottimo dramma corale di Gabriele Muccino.

Gli anni più belli – Scola, la vita attraverso il cinema, amicizie e passioni amorose senza fine

Gli anni più belli. Gerarchia sociale ed emozionale. Gabriele Muccino e il cast del film.

Dodicesimo lungometraggio della carriera di Gabriele Muccino. Presentato come il suo film più epico, riuscito e sentito: volendo, per certi versi – almeno rispetto all’epicità intesa nel suo significato più storiografico e di narrazione -, ci si può trovare d’accordo.

Questo perché come Muccino ha sempre fatto (o cercato di fare), il film pone in primo piano il contrasto tra una lunga storia d’amicizia e amore e un’altra altrettanto lunga, quella di un paese (in questo caso l’Italia) che vive e attraversa gli effetti e le conseguenze di alcuni eventi di interesse globale.

Dalla caduta del muro all’11 settembre, dallo scontro tra Forlani e Di Pietro, alla discesa in campo (e poi ascesa) di Berlusconi, dal 1980 a oggi, e dunque le rivoluzioni studentesche, i conflitti e gli scontri di piazza, tangentopoli e via dicendo.

Quarant’anni di eventi e sentimenti, amicizie, ascese e cadute, violenze e ferite non più curabili, ormai soltanto da celare e tenere il più possibile a bada.

Ecco dunque che qui vive l’aspetto storico (e per utilizzare il termine scelto dallo stesso Muccino, epico) del film.

Analisi del secondo periodo italiano del regista e sceneggiatore romano Gabriele Muccino. Dal 2016 al 2020. Tre lungometraggi nella storia.

I tre amici. Il periodo della giovinezza. Riccardo (Matteo De Buono), Giulio (Francesco Centorame) e Paolo (Andrea Pittorino).

Si osserva e segue con sguardo amico l’evoluzione di una lunga amicizia, di un lungo amore e per ultima, di una lunga menzogna che Gemma (Micaela Ramazzotti – Alma Noce), Paolo (Kim Rossi Stuart – Andrea Pittorino), Giulio (Pierfrancesco Favino – Francesco Centorame) e Riccardo (Claudio Santamaria – Matteo De Buono) si tramandano, trascinano e raccontano nel tempo, pur di sopravvivere ancora per un po’ tra il ricordo di quello che è stato e la speranza di quello che potrà ancora essere.

Muccino si colloca pezzo per pezzo in ciascuno dei personaggi che crea all’interno del film, giudicandosi e mettendosi a nudo una volta per tutte, mostrando le sue cicatrici e i rimpianti che sembrano essere diventati insopprimibili, a tal punto da necessitare un’autoanalisi cinematografica sorprendentemente interessante.

Come noto, una delle cifre stilistiche del cinema mucciniano è l’utilizzo talvolta esasperato, talvolta efficacissimo, dei lunghi piani sequenza. Specialmente nei momenti di grande pathos e tensione emotiva, che torna un’altra volta nel tempo anche all’interno di questo suo ultimo film, godendo di una piccola, e allo stesso tempo grossa, novità.

Il matrimonio di Riccardo (Claudio Santamaria) e Anna (Emma Marrone). Felicità e ascesa prima del crollo.

La tensione e i nervosismi dei suoi personaggi sono sì gridati nei segmenti della giovinezza e dell’adolescenza, ma vengono poi messi a tacere, annullati e calati nel silenzio nel momento in cui il film si trasforma ed evolve, e dunque quando lascia i giovani e porta in scena gli adulti.

È sempre più presente ormai un senso di rassegnazione profonda, che non è sconfitta vissuta passivamente, e dunque non si esprime nel nichilismo del non aver dato e fatto abbastanza; ma è piuttosto una presa di coscienza totale e definitiva rispetto a quello che si è cercato di fare e quello che si è poi riusciti a raggiungere.

Una riflessione questa che vive nei numerosi rimandi al cinema italiano del passato che Muccino mette in fila, focalizzandosi principalmente sul capolavoro di Ettore Scola, C’eravamo tanto amati del 1974, senza però tralasciare l’altrettanto noto Una vita difficile di Dino Risi del 1961.

Analisi del secondo periodo italiano del regista e sceneggiatore romano Gabriele Muccino. Dal 2016 al 2020. Tre lungometraggi nella storia.

Una storia d’amore lunga quarant’anni, Paolo (Kim Rossi Stuart) e Gemma (Micaela Ramazzotti)

Un confronto tra Gli anni più belli (2020) e C’eravamo tanto amati (come molta critica ha fatto) sarebbe inopportuno e scorretto però. Poiché Muccino non ha scelto di farne un remake, piuttosto di richiamarlo.

I suoi personaggi, i suoi amici (e innamorati) non sono una fotocopia di quelli di Scola, ne rappresentano invece l’ombra. I fantasmi che si trascinano tutt’oggi tra noi, raccontando e mostrando le ferite degli anni.

Il cinema vive e sopravvive al tempo, sembra dire Gli anni più belli. Un cinema diegetico ed extradiegetico che offre un ennesimo strumento di lettura della volontà narrativa mucciniana.

D’altronde è qualcosa che il regista romano non ha mai cercato di nascondere.

Analisi del secondo periodo italiano del regista e sceneggiatore romano Gabriele Muccino. Dal 2016 al 2020. Tre lungometraggi nella storia.

Ritrovarsi nel tempo. Gli anni più belli. La potenza del ricordo e di ciò che è sopravvissuto al dolore e alle ferite.

Il suo è sempre stato un cinema di grandi riferimenti, richiami e citazioni. Tanto al cinema nostrano quanto a quello internazionale.

Lo sguardo al dodicesimo lungometraggio è pacificato dalle ferite alleviate, dalle insoddisfazioni ormai accettate e comprese, e dalla maturità di un uomo e regista che ha vissuto più vite e sistemi, trovando una volta per tutte casa.

Muccino cita Scola. Inquadratura di riferimento.

Gli anni più belli si colloca in definitiva nel solco e nel fiume in piena di tutta la nobile tradizione della commedia all’italiana, quella corale e popolare, ma non per questo dalla minor valenza storica.

Il film si presenta a noi come un tentativo di vero assolvimento e di raggiungimento di un perdono tanto desiderato e cercato, dopo un lungo periodi di dissidi, rancori, differenze socio-culturali e sconfitte.

L’estate addosso era un film su quello che è stato, A casa tutti bene un film su quello che dovrebbe e potrebbe essere, Gli anni più belli è invece un film su quello che è.

Leggi anche: Gabriele Muccino – Il secondo periodo americano e l’addio a Hollywood

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